Tremende bazzecole

Barilla o meno, per Chesterton «solo gli stolti si fanno condizionare dalla pubblicità». Capito Dario Fo?

I cristiani difendono il vino perché fa bene agli uomini.
Gli astemi ne scoraggiano il consumo perché, secondo loro, li distrugge.
Le loro coscienziose conclusioni sono diverse, ma le loro coscienze sono le stesse.
Gilbert K. Chesterton

Dire “Tutti a tavola!” in questi giorni è come una chiamata alle armi. Ma sarebbe l’unica cosa intelligente da fare. Imbandire un’unica grande tavolata a cui invitare: la Presidente Boldrini, insieme alle modelle in bikini di Intimissimi e alla mia vicina con cui ci salutiamo sempre dicendo: “Vado, che quelli (marito e figli) tra poco reclamano il cibo”; invitare anche il signor Guido Barilla e Dario Fo e ogni sorta di assembramento umano che condivide lo stesso tetto (la famiglia molto tradizionale, il bamboccione che vive con la mamma vedova, la coppia gay, il musulmano con le sue mogli, il single per scelta). E poi vediamo cosa si dicono, senza usare hashtag.

A questa tavolata assisterei con piacere, tutto quel che riguarda il modo in cui la pubblicità rappresenta la realtà mi interessa un po’ meno. Nella sua recente intervista ad Antonio Spadaro di Civilità Cattolica il Papa ha detto, a proposito delle grandi questioni come aborto, matrimonio, omosessualità: «Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto». Ecco, la pubblicità è tutto fuorché un contesto. Eppure pare diventato un interlocutore serio rispetto a cui trarre conclusioni morali o rispetto a cui intavolare battaglie ideali (o ideologiche). Con la pubblicità non si può – letteralmente – intavolare nulla. È e resta un mezzo di comunicazione che promuove un prodotto. È un accessorio. È un accessorio vistoso che occupa spazio ovunque, che s’infila tra l’anteprima del tg e i titoli del tg, che ti fa aspettare sempre 15 secondi prima di poter vedere qualsiasi video su YouTube.

Non è brutta la pubblicità, talvolta è artisticamente molto più bella di libri pluripremiati. Ma non è culturalmente rilevante (è rilevante, ovviamente, per chi deve vendere il proprio prodotto). Sembra rilevante perché è così onnipresente da condizionarci; il trucco della pubblicità è talmente palese che noi non riusciamo più a vederlo, per questo chiamo in causa il signor Chesterton che disse qualcosa in merito mentre si trovava in quell’apoteosi di réclame a cielo aperto che è Broadway:

«Decisamente solo una generazione di uomini stolti, sentimentali e piuttosto servili può lasciarsi condizionare dalla pubblicità. Gente un po’ più sveglia, ironica e intellettualmente indipendente si accorge subito del trucco; e non gli dà più importanza che a qualsiasi altra forma di autopromozione. Praticamente ogni altro uomo in ogni altra epoca si sarebbe accorto del trucco. Se avessi detto all’uomo del paleolitico: “Ugg dice che Ugg è il miglior costruttore di asce di pietra”, lui avrebbe percepito una mancanza di distacco e di disinteresse da parte del promotore. Se avessi detto al contadino medievale: “Robert il fabbro proclama con squilli di tromba che fabbrica degli ottimi archi”, il contadino avrebbe risposto: “Bè, è ovvio che lo dica” e si sarebbe messo a pensare a qualcosa di più importante. È solo in mezzo a gente le cui menti sono state indebolite da una sorta di ipnosi che questo palese trucco della pubblicità può ancora funzionare» (da Quel che ho visto in America).

Dunque non giudico rilevante se la pubblicità, in base agli interessi di mercato che la muovono, continuerà o meno a promuovere l’immagine della famiglia tradizionale; né imposterei una discussione sul ruolo della donna nella società scandalizzandomi perché la pubblicità usa i nostri istinti sessuali per far leva sui desideri. Non è alla pubblicità che delego un ruolo rilevante nella costruzione della mia vita. La vita è in un contesto; e vorrei mi fosse concessa la licenza poetica di usare questa parola «contesto» rifacendomi all’etimologia per cui il «testo» è un genere di stoviglia su cui si cucina. Da un contesto vissuto non nascono forme espressive come l’insulto, lo spot o le smentite ufficiali; nasce invece un argomento, una proposta: più che nei testi fatti di pure parole, la coscienza umana emerge in contesti di carne e ossa e si esprime per pro-porre (mettere sul tavolo) le parole che sostiene.

Perciò mi importa che su questioni rilevanti come la famiglia si possa ancora avere la libertà di «intavolare» confronti, in cui sia lecito esprimersi usando i toni della pubblicità. Perché una cosa buona la pubblicità ce l’ha: non è tiepida nel modo di comunicare. Non tollera i «ma, forse, però»; non ci sono rettifiche al ribasso. La Coca Cola ti dà «la ricetta della felicità» e non «un’ipotesi parziale di un barlume di contentezza»; oppure, George Clooney ci ha detto e ridetto: «Immagina, puoi» e non «Se vuoi, immagina». In quei 15-20 secondi la felicità, la libertà, la gioia ci vengono promesse per sempre e totalmente. Riguardo a ciò, chi crea la pubblicità dimostra di sapere davvero bene com’è fatto l’uomo. Quello per cui nella vita siamo disposti a dare tutto non lo esprimiamo nella forma inamidata di un comunicato stampa.

Il signor Chesterton spiegò la cosa in questi termini: «L’animo di un uomo è pieno di voci simili a quelle di una foresta; ci sono diecimila lingue simili a tutte le lingue degli alberi: fantasie, follie, assurdità, paure misteriose e speranze ancora più misteriose. […] L’unico metro di giudizio che conosco per valutare un’argomentazione o un’ispirazione è in fin dei conti il seguente: tutte le necessità nobili dell’uomo parlano il linguaggio dell’eternità. Quando un uomo compie tre o quattro azioni per cui è stato mandato sulla terra, allora parla come un individuo destinato a vivere per sempre. Chi muore per il suo paese non parla come se il suo attaccamento a un determinato luogo potesse mutare. Leonida non afferma: “La mia inclinazione attuale mi fa preferire Sparta alla Persia”. Guglielmo Tell non osserva: “La civiltà svizzera, per quanto posso vedere, è superiore a quella austriaca”. Quando gli uomini costruiscono comunità, parlano in termini assoluti e lo fanno anche quando creano quelle comunità più piccole chiamate famiglie» (da La serietà non è una virtù).

@AlisaTeggi

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