Su Dagospia si scrive: «Sdeng! L’economia statunitense potrebbe andare incontro a una recessione il prossimo anno. Non lo dice un tabloid di destra, ma il super liberal Washington Post, in un articolo piuttosto allarmista sulle condizioni dei conti statunitensi».
Le previsioni economiche, specie in periodi critici, sono poco più attendibili degli oroscopi, tuttavia se il Washington Post esprime pessimismo, questo è un messaggio, può essere una profezia che si autoavvera, forse un ammonimento a Joe Biden perché si impegni a cercare soluzioni politiche invece di insistere sulla retorica della “vittoria” ucraina.
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Su Huffington Post Italia si scrive: «“Per impedire che la crisi umanitaria si aggravi dobbiamo raggiungere prima possibile un cessate il fuoco e far ripartire i negoziati: è la posizione dell’Italia, dell’Ue e che ho condiviso con Biden”. A dichiararlo è Mario Draghi in un’informativa al Senato, in cui rimarca che “solo l’Ucraina poi deciderà che pace accettare”».
È significativo che la mossa di Draghi sia fatta dopo la visita di Janet Yellen, segretario del Tesoro e colomba nell’amministrazione Biden, e le forti difficoltà di Wall Street.
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Su Formiche Benedetto Ippolito scrive: «Si può dire, in definitiva, che la crisi delle ideologie novecentesche fu capita ed interpretata da Craxi e Andreotti come un’opportunità positiva per la politica italiana, proprio perché dal lato laico come da quello cattolico la formazione ideale e la competenza personale hanno permesso ad entrambi di sfruttare le possibilità che la storia apriva a loro in un decennio così positivo e florido della nostra vita».
Con tutti i suoi difetti la Prima Repubblica ha funzionato perché c’era un rapporto tra cittadini e istituzioni, forse un po’ troppo assorbito dai partiti, ma solido. Un ingrediente essenziale di quel sistema era la divisione del mondo in blocchi, infatti entrò in crisi dopo la caduta del muro di Berlino. Ora si ripropongono tematiche geopolitiche rilevanti e ci sarebbe forse lo spazio per elaborare posizioni politiche che le interpretino e che raccolgano anche su questa base il consenso elettorale, senza bisogno di un perenne commissariamento.
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Su Tgcom si riprende dall’Ansa la notizia che «la corsa dell’Ue all’indipendenza dall’energia russa è ufficialmente partita, ma nel frattempo le aziende europee si sono affrettate ad aprire conti in rubli come indicato da Mosca. Lo ha già fatto “circa la metà delle 54 società straniere che hanno contratti con Gazprom per l’acquisto di gas russo”, ha annunciato il Cremlino attraverso il vicepremier Alexander Novakm, confermando quanto a Bruxelles e nelle cancellerie europee era ormai noto».
Nella “nebbia della guerra” non “tutti” gli atti concreti sono del “tutto” trasparenti.
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Sul Sussidiario Antonio Fanna scrive: «Mario Draghi ha un problema. Non è la guerra, e neppure il Covid, il rialzo dei prezzi, il Pnrr, il decreto spiagge e compagnia bella. L’intoppo del presidente del Consiglio si chiama Parlamento, se non la politica nel suo complesso. Il problema era già emerso con altri governi tecnici, tipo quello di Mario Monti: dall’alto della loro inarrivabile statura di salvatori della patria, i premier delle maggioranze di emergenza nazionale hanno sempre considerato i partiti come degli scendiletto di lusso, destinati a essere calpestati a piacere del padrone di casa. Obbligati a stare assieme in nome del “o così o si vota”, i partiti dovrebbero limitarsi a prendere atto di ciò che decide l’illuminato premier di turno, e possibilmente passare il resto del tempo a tacere».
In una situazione di grande tensione internazionale è proprio sicuro che sia utile un governo senza una vera base politica legittimata dal voto popolare?
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Su Fanpage Fulvio Scaglione descrive uno scenario inedito dell’evoluzione delle tensioni tra Russia e Occidente: «Perché l’Artico sarà il teatro della prossima guerra tra Putin e l’Occidente. La fine della Lega Artica, Svezia e Finlandia nella Nato, le risorse energetiche e minerali, le rotte navali tra i ghiacci che si sciolgono: la guerra oggi è in Ucraina, ma domani sarà lì. Perché è lì, nell’estremo nord, che si decide chi comanda il mondo». Prosegue così: «La decisione russa di uscire dal Consiglio – che peraltro aveva sospeso la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina, nonostante che Mosca avesse la presidenza dell’organizzazione fino al 2023 –, per quanto non fondamentale in sé, è una brutta notizia, soprattutto perché conferma che la guerra tra Mosca e Kiev (e, per interposta Ucraina, tra la Russia e l’Occidente) allarga costantemente il cerchio delle sue conseguenze. E sempre più si avvicina a una regione cruciale per gli equilibri mondiali: l’Artico. Perché questo spazio si appresta a trasformarsi nello stesso senso del Mar Baltico: quando Svezia e Finlandia entreranno nella Nato, tutti i paesi che affacciano sull’Artico (Usa, Canada, Danimarca, Islanda, Norvegia e, appunto, Svezia e Finlandia) saranno membri dell’Alleanza. Tutti tranne uno, il più artico di tutti: la Russia, che sul mare freddo ha 24 mila chilometri di coste, il 53 per cento del totale. Anche tra i ghiacci, insomma, si preannuncia uno scontro “Russia contro tutti” pieno di incognite e di rischi».
Prevedere le conseguenze dello stato di tensione attuale non è semplice, si può rischiare di enfatizzare pericoli che potrebbero essere evitati, ma è importante avere una visione globale che ora sembra offuscata dalle prepotenti tendenze retoriche e propagandistiche.
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Su Strisciarossa Guido Rampoldi commenta negativamente l‘embargo alle relazioni culturali con le università russe: «Le università di 16 paesi europei – innanzitutto britanniche, tedesche e francesi – vanno bloccando la collaborazione con le università russe. Se può consolare il fatto che l’Italia non sia nell’elenco malgrado anche da noi non manchino cretini russofobi, dovrebbe però allarmare che atteggiamenti di questo genere si diffondano in Europa senza provocare rivolte, innanzitutto tra gli addetti ai lavori. Il boicottaggio riguarda soprattutto i fondi per i progetti di ricerca scientifica (il governo tedesco, per esempio, ha sospeso tutti i progetti “collegati allo Stato russo o a collaboratori istituzionali di quello”) e altre forme di collaborazione. Unito all’impossibilità di accedere a portali accademici occidentali, colpisce indiscriminatamente anche gli avversari del regime».
Da sempre, e non solo in Russia, nelle università, oltre ovviamente alle formali adesioni al “regime” si raccolgono e per quel che possono si esprimono le dissidenze. La globalizzazione delle conoscenze scientifiche e culturali precede quella economica: anche per questo tenere aperti questi canali non è un favore a Putin, chiuderli impoverisce il confronto culturale e quindi anche gli atenei occidentali.
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Su Stati Generali Saverio Allocca esprime dubbi sulla reale intenzione di Goldman Sachs di ritirarsi dalla Russia. Ricorda che il Ceo David Solomon, quando due mesi fa annunciò l’intenzione di ritirare la sua banca dalla Russia, aggiunse: «Non so se sia compito delle grandi istituzioni finanziarie ostracizzare la Russia». Il ruolo di Goldman Sachs è peculiare anche perché «la Goldman Sachs è stata una delle prime banche ad offrire una carriera a politici affermati, oppure a finanziare una carriera politica ai propri dirigenti più fedeli, ottenendo un risultato che va molto al di là del lobbismo, persino nelle misure estreme in cui è lecito negli Stati Uniti». Perfino nella periferica Italia sono rilevanti le personalità che sono passate per la banca americana. «Il presidente del consiglio italiano Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia dal 2006 al 2011, della Banca centrale europea dal 2011 al 2019, è stato vicepresidente di Goldman Sachs Europa dal 2002 al 2005. Nel suo staff lavorava Gianni Letta, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri nei governi guidati da Silvio Berlusconi. Mario Monti, commissario europeo dal 1994 al 2004, presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana dal 2011 al 2013, era da anni un consulente della Goldman Sachs e membro del Research Advisory Council del Goldman Sachs Global Market Institute».
Chissà se il Wall Street Journal e Ian Bremmer, quando a fine marzo attaccavano le incertezze di Mario Draghi sulla Russia, non ce l’avevano anche con gli amichetti americani del premier italiano.
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Su Formiche Emanuele Rossi descrive il complesso tentativo dell’amministrazione Biden di trovare un accordo con il regime iraniano attraverso una specie di mediazione degli emirati: «Il coinvolgimento più attivo di Qatar e Oman; nonché i contatti di distensione in corso tra Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti; un ruolo più assertivo con Teheran e più dialogante col Golfo giocato dalla Turchia: sono questi i fattori nuovi nell’attuale fase delle lunghe trattative sul Jcpoa. Il dossier iraniano, nonostante tutte le attenzioni siano concentrate sull’Ucraina, non può essere lasciato indietro come hanno scritto sul Washington Post Carl Bildt, ex primo ministro svedese, e Javier Solana, ex segretario generale della Nato e alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. “L’Occidente non ha stipulato accordi di controllo degli armamenti con l’Unione Sovietica perché appoggiava la leadership del paese o cercava di normalizzare le relazioni”, hanno scritto Bildt e Solana, entrambi board member dell’Ecfr: “L’abbiamo fatto perché andava a vantaggio della nostra sicurezza nazionale. Lo stesso vale per l’Iran. Biden deve considerare seriamente i costi della sua passività nei confronti dell’Iran e trovare una via d’uscita, o potremmo ritrovarci in un altro conflitto che nessuno ha chiesto”».
Gli interessi petroliferi hanno un grande peso e sarebbe insensato dimenticarlo, ma l’Occidente che difende il principio democratico e liberale in Ucraina non può trascurare il rischio rappresentato dalla teocrazia iraniana che, tra l’altro, continua a dichiarare che Israele deve essere distrutto.