Galizia, Spagna. Il Camino Inglés, dalla costa del mare Cantabrico a Santiago
di Compostela, all’inizio è una linea invisibile ai margini di strade a traffico veloce, lucente l’asfalto della pioggia dell’Atlantico. Ma presto ci si addentra nella campagna, lo zaino in spalla, a piedi. La strada si stringe e poi si fa sentiero nella grande pace di questa Spagna nordica, battuta dal vento dell’oceano, percossa all’inizio della primavera da una pioggia che ne impregna i campi e trabocca nel verde chiaro, sorgivo, dei germogli. Terra disabitata, terra selvatica. Nei boschi si affonda nel fango, si esita ai bivii, ci si ferma incerti, cercando la conchiglia – il segno del Camino. A piedi, a passo costante, in lenti chilometri che centellinano il modificarsi dell’orizzonte. A piedi, tutto riacquista una densità e un sapore perduto. Ogni cosa ha un odore. La terra bagnata, il letame, i cespugli di menta sui bordi delle
sterrate. Tutto è profumo, che l’olfatto registra stupito, come risentendo note da
gran tempo dimenticate.
Eccola, la conchiglia, seminascosta da una ciocca rigogliosa di edera rampicante.
Riprendi allora con un passo più sicuro e veloce. (È bello percorrere una strada già calpestata nei secoli da tanti uomini; è bello avere, in questo allargarsi infinito di campi solitari, una meta – che in spagnolo splendidamente si dice “destino”). Ciò che ti sbalordisce, e che osservi avida, come volendo con gli occhi portartelo via, è il rigoglio della terra intatta, dove limoni e aranci crescono generosamente, e le amelie, pure nel freddo, sono già tutte sbocciate. Fioriscono spontanee, in questo pezzo estremo di Spagna, angolo fra l’oceano e il mare, le calle, quei grandi fiori candidi a forma di flûte da champagne che a Milano trovi dai fioristi raffinati. Eccole invece, splendide, aristocratiche, ai bordi di una roggia verso Betanzos. Gratuite, da nessuno seminate. E ancora colline, e sterminati orizzonti. Solitarie cascine senza nessuno, dove l’unico suono è il cigolio leggero del segnavento sul tetto – galletto di metallo che ruota a una nuova folata di vento. (E come è forte quel gemito, in una terra vuota). Talvolta invece in una cascina c’è un vecchio che sorride ai pellegrini, e augura in galiziano qualcosa che vuol dire: andate con Dio. Se piove, ti lasciano riparare nei granai, il cane alla catena che diffidente non finisce di latrare.
E ancora boschi. Nelle distese di felci morte color ruggine spuntano i germogli delle felci giovani; arditi e sottili, come certi di essere così diritti, le giovani foglie turgide, per sempre. I passi seguono la strada antica di tanti che hanno marciato verso Santiago nei secoli. Squarci di sereno, raggi di sole improvvisamente caldo – lassù in alto, fra le nuvole nere e l’azzurro, è battaglia. Le torri della cattedrale, al primo apparire da lontano, sembrano di un castello incantato. In questa terra selvatica, che cosa ha germinato quella fantasmagorica macchina di pietra color oro? Un miracolo, probabilmente; come le calle candide e regali ai bordi delle rogge di fango.