Anticipiamo un articolo tratto dal numero di Tempi in edicola a partire da domani, giovedì 31 marzo (vai alla pagina degli abbonamenti)
Bruxelles non è diventata «la capitale dell’islamismo europeo» per caso. Se oggi il quartiere di Molenbeek, da cui provenivano molti degli attentatori islamici di Parigi e Bruxelles, assomiglia a Mosul o Raqqa «è colpa nostra». Si può sintetizzare così l’analisi di Alain Destexhe, senatore, membro del Parlamento regionale di Bruxelles per i riformisti liberali e rappresentante del Belgio al World Economic Forum. Già segretario generale di Médecins sans Frontières, Destexhe è sempre stato un punto di riferimento per la difesa dei diritti umani, ma senza cedere alla retorica dell’umanitarismo.
Senatore, sul Figaro lei ha scritto che «negli ultimi vent’anni il Belgio ha sbagliato quasi tutto».
Sì, e lo confermo. È da prima del 2000 che siamo diventati un paese di immigrazione, accogliendo più persone di qualunque altro Stato europeo: più di Francia, Germania, Gran Bretagna. Oggi ci ritroviamo con centinaia di gruppi legati all’islam, con il 35 per cento della popolazione di Bruxelles che è musulmana e con ghetti dove prolifera la radicalizzazione.
Molti sostengono che il peccato originale del Belgio sia aver svenduto il proprio islam alle correnti estremiste dell’Arabia Saudita in cambio di petrolio.
Ma questa è solo una piccolissima parte del problema. Non si può dare tutta la colpa all’Arabia Saudita perché il problema è molto più generale ed è nostro. Le responsabilità sono della società belga.
Troppa accoglienza?
No, il punto è che non abbiamo mai integrato tutte le persone che abbiamo accolto. Abbiamo lasciato che si integrassero da soli, ma questo non è mai successo: ognuno continua a seguire cultura e tradizioni di origine. In vent’anni non abbiamo mai voluto guardare alle conseguenze delle nostre politiche immigratorie.
Quali sono?
Prima di tutto con una politica troppo lassista abbiamo svenduto la nazionalità belga: bastano tre anni di residenza per ottenerla senza altri requisiti economici o linguistici. Anche i gruppi radicali non sono spuntati dal nulla, siamo noi che li abbiamo tollerati.
Come?
Anche quando non sfocia in violenza, esiste un problema di fondamentalismo islamico che non è in linea con i valori della società belga. Ci sono scuole a Bruxelles dove gli studenti sono al 90 o anche al 100 per cento musulmani. In queste scuole non si rispettano i diritti delle donne, è difficile che le ragazze pratichino lo sport oppure non si mostrano le immagini di certe opere d’arte perché sono statue senza veli. Noi non abbiamo reagito a questi “incidenti” e ora ne paghiamo il prezzo. Abbiamo ignorato l’influenza dell’islam nella nostra società e ora ci ritroviamo con quartieri-ghetto dove il comunitarismo è la regola e questo rappresenta un terreno fertile per radicalizzazione e terrorismo.
Perché avete ignorato i primi campanelli di allarme?
Innanzitutto perché ci siamo votati all’ideologia del multiculturalismo, sbandierata da molti partiti politici, assumendone i princìpi senza un dibattito: ogni cultura doveva essere accettata in quanto tale. Poi c’è stata la tendenza a minimizzare come problemi individuali delle vere e proprie tendenze nella società. Ogni volta che capitava un fatto come quelli appena descritti tendevamo a guardare l’autore, specie se immigrato, come una “povera persona” a cui bisognava perdonare tutto, che sbagliava solo perché era stata esclusa da noi. È il politicamente corretto. Poi ovviamente qualcuno ci guadagnava.
Chi?
I partiti di sinistra hanno fatto questo ragionamento: più lasciamo fare agli immigrati quello che vogliono e più voti riceveremo in cambio. Effettivamente è andata così, perché Bruxelles è sempre stata una città liberale e ora invece è passata ai socialisti. Non sfuggirà però che più della metà dei loro elettori ha un background di immigrazione.
Cosa significa per lei integrazione?
Di sicuro so cosa non significa: le sembra possibile che la consistente comunità turca del Belgio non abbia mai criticato Erdogan? Il presidente turco sta distruggendo la libertà di espressione e ha più sostenitori a Bruxelles che ad Ankara. La verità è che dentro tante comunità non si accettano i valori europei.
E in positivo cosa significa?
Significa adottare le leggi e i valori del luogo dove si vive, rinunciando ad alcuni tratti della cultura del proprio paese di origine. Non dico che devi cancellare le tue origini, ma una parte sì. Noi ad esempio non siamo antisemiti e riconosciamo a tutti il diritto di cambiare religione: questi punti devono essere accettati. Devi accettare che i tuoi figli possano sposare dei non musulmani o dei non turchi o dei non arabi. Secondo un recente sondaggio, in Belgio la terza generazione di immigrati turchi non ha amici belgi, ma solo turchi. La nostra situazione è questa.
Non è che l’identità europea si sta indebolendo?
È una domanda spinosa. Io so che oggi viviamo in una società dove le culture sono tante, ma non sono tutte uguali. In Occidente vige ad esempio la monogamia, mentre tanti immigrati provengono da paesi dove c’è la poligamia. Alcune parti tra le culture sono in contraddizione, e per integrarsi è necessario assumere la parte europea e abbandonare quella del paese di origine. Il multiculturalismo in Belgio ha fallito: siamo arrivati al punto che tra alcuni quartieri di Bruxelles e Molenbeek non c’è più niente in comune.
Se questa è la situazione, da dove si può ripartire?
Voglio essere sincero: non lo so. Anzi, io non penso che si possa ripartire. Dobbiamo provare a ricostruire, certo, ma non credo che ce la faremo. Non è una critica al governo, che secondo me sta gestendo benissimo questa emergenza e ha cercato di raddrizzare la barra. Ma come facciamo a cambiare direzione ora? Ci sono persone nate in Belgio, che hanno frequentato per oltre 15 anni le nostre scuole e sono diventati terroristi per uccidere i loro concittadini. Come puoi cambiarli adesso? È troppo tardi.
Foto Ansa