
Per quanto si sia discusso e ci si sia lungamente e spropositatamente soffermati sullo schiaffo di Will Smith, il misfatto non ha sufficientemente ringagliardito la 94ª notte degli Academy Awards che resta la seconda edizione peggiore della storia degli Oscar. E i motivi, resi noti dagli spettatori già prima della pandemia, pare che siano sempre gli stessi: «Troppo bianchi (ad oggi non saprei), troppo lunghi, troppo noiosi, troppo politicizzati». E come dar loro torto sul “troppo politicizzati”. Basti ascoltare i discorsi di ringraziamento di Ariana DeBose e Jessica Chastain.
Per non farci mancar nulla, alcuni giornali italiani ci tengono a sottolineare che la figlia che quest’ultima saluta dal palco è stata concepita da madre surrogata – nemmeno una guerra, il dramma che stanno vivendo i bambini ucraìni dell’utero in affitto e delle loro tate sembra elargire com-passione e allontanare le persone da questo abominevole business –. Ma forse sarà proprio il fallimento degli ascolti e il decentramento dal mondo del cinema in tutte le sue meravigliose sfaccettature, che ha fatto sì che l’incidente, spontaneo o meno, dell’attore Will Smith, resti il gesto più vero e forse l’unico da ricordare.
Ma realmente è così? In un momento storico così drammatico ci basta davvero ricordare un gesto così banale?
Cresciuta a pane e Armageddon
Certo, è senz’altro più vero del diabolico Don’t look up di Adam McKay (anche se 12 candidature vorranno pur dire qualcosa). Ma – ahimè! – non ho mai compreso la satira e avendo una sorella maggiore fissata con Armageddon sono cresciuta con questo film, e preferisco tenermi stretta l’ingenua idea che un gruppo bislacco di sbrindellati, coraggiosi e umili uomini possa salvare il mondo a colpi di trivella senza farsi assuefare dal potere, – un gran in bocca al lupo al grande Bruce Willis che soffre di afasia e ha smesso di recitare – , e che una bomba atomica venga usata solo per distruggere un meteorite, piuttosto che arrendermi alla desolante idea, che non esistano eroi e che l’unica cosa che rimane da fare è indignarsi dei potenti.
Come dice Chesterton in “The Red Angel”(scoperto grazie a MammaOca): «Se ritiri la guardia degli eroi non lo stai rendendo razionale; lo stai solo lasciando a combattere i diavoli da solo». Come se “Possiamo affrontare con forza il mistero cupo, ma non il mistero felice; non siamo razionalisti, ma diabolisti» (Tremendous Trifles/Chapter XVII). In fondo chi sta combattendo ora per la propria libertà, non assomiglia forse più al gruppo bislacco, umile e coraggioso armageddoniano?
Eroi reali come i genitori
“Eroi” e “mistero felice” che non mancano invece in Belfast di Kenneth Branagh premiato per la miglior sceneggiatura originale. Solo 6 candidature. Personalmente film dell’anno che ricorderò più della “scelleratezza” di Will Smith. — Per tal discernimento, mi è accorsa in aiuto una buona amica e La Febbre del Lunedì Sera, una rassegna milanese di Sentieri del Cinema, che ogni settimana propone un film in proiezione nelle sale italiane. E che consiglio a tutti. Non solo per il biglietto a 4 o 5 euro e per l’impressionante comodità delle poltrone reclinabili del Notorious Cinema Sesto San Giovanni, ma anche e soprattutto per lo straordinario acume dei critici in sala. Un po’ come quello di Simone Fortunato nel raccontarti i film di Pasolini.
Eroi reali come i genitori, i nonni e John Wayne; o fantastici come il matto inventore della macchina volante in Citty Citty Bang Bang, o i personaggi di Dickens. Ma tutti sempre veri, e di cui Kenneth Branagh si serve per raccontare una storia semi-autobiografica con una viscerale e fanciullesca squisitezza, una genuina ironia, un fascino meraviglioso «vellutato, setoso, satinato» del bianco nero «in cui tutti sembrano più affascinanti» (K. Branagh). E, detto tra parentesi: Jamie Dornan è più affascinante in questo film vestito da Marlon Brando, che nudo in 50 sfumature di grigio.
«Era anni che prendevo appunti»
Non mancano poi pennellate di colore, nel mezzo di una scenografia prosaicamente ed epicamente Cartier-Bressionana in cui riverbera il vibrante e dolce suono del sassofono di Van Morrison. Tutto dentro la violenza del conflitto nordirlandese, The Troubles. Una violenza volutamente non marcata ma che fa intuire quello che sarebbero stati i trent’anni a venire. E il piccolo Kenneth, Jude Hill, riesce a starci davanti grazie a quegli eroi, grazie all’amore fanciullesco per la piccola Catherine, grazie a racconti e cinema, grazie a quella forte appartenenza alla famiglia; famiglia imperfetta, piena di debiti, ma con una solida identità e senso di giustizia e bellezza. Il bambino ricorda uno di quei «piccoli marinai» di Chesterton «per i quali un drago o due sono semplici come il mare» (Tremendous Trifles/Chapter XVII).
«Pensavo da una cinquantina d’anni a un film su Belfast» dice il regista in un’intervista «Erano anni che prendevo appunti, finché improvvisamente il film è esploso, inaspettato, e l’ho scritto di getto. Belfast però non è un’autobiografia e neppure un documentario, non pensavo infatti a una descrizione accurata degli eventi della mia infanzia, quanto piuttosto alla verità e alla forza di tante emozioni. Per gli irlandesi quello che conta è una bella storia». Credo che per tutti, quelle che contano sono le belle storie. Quelle che si intrecciano con la propria, con i propri sentimenti e bisogni, e per cui, come direbbe Vivian Ward, «ti si aggrovigliano le budella».
Più di uno schiaffo, abbiamo bisogno di un angelo rosso in bianco e nero.