Che cosa voglia Berlinguer lo sappiamo, ma che cosa vogliamo noi? Che cosa vuole Berlinguer l’ha dichiarato lui stesso: vuole – letteralmente “sostituire una scuola dell’insegnamento con una scuola dell’apprendimento”, che per chi come me lavora nelle scuole statali, significa un tempo sempre più pieno di attività aggiuntive, pomeridiane, di ogni genere di educazione ed offerte formative (un segnale interessante: le parole educazioni le stanno facendo sparire anche dalle definizioni). Esiste, infatti, un nuovo contratto che istituisce figure differenziate cui, a seconda delle funzioni, danno stipendi diversi (per cui nelle scuole statali c’è una lotta tra poveri per conquistare i 3 milioni annui lordi connessi a una serie di funzioni). Si percepisce, perciò, negli stessi colleghi uno smarrimento dell’identità professionale per cui non si sa più bene se il proprio compito sia insegnare in classe o smantellare la scuola tradizionale per buttarsi in attività di cui non si capiscono scopi e confini. È in atto, inoltre, un esproprio definitivo del ruolo della famiglia da parte della scuola che ha una prevalenza assoluta sul progetto educativo dei ragazzi.
Ma noi cosa vogliamo? Spesso ci chiediamo: “che cosa dobbiamo fare?”. Al contrario dovremmo chiederci: “io chi sono?”, cioè qual è la mia consistenza, a che cosa appartengo? Ma la risposta a questa domanda è possibile soltanto dentro l’ambiente scolastico e si esprime come contrattacco culturale. Per me l’evento del 30 ottobre è questo: un contrattacco culturale, a partire cioè da una origine completamente diversa da quella espressa da tutte le riforme attuali cui, altrimenti, potremmo correre il rischio di correre dietro, magari rispondendo, anche con originalità e capacità di invenzione, alle condizioni che ci vengono poste. Roma è un contrattacco, non un problema della scuola cattolica: a Roma si pone una domanda culturale che oggi nella scuola è del tutto cancellata sparita.