Ce lo ricordiamo ancora, nelle mattine di una televisione locale (Telelombardia), cantare le sue ballate in uno studiolo angusto, rispondendo al telefono ai primi suoi fans: era la metà degli anni ’90. Chissà cosa pensava Davide Van De Sfroos, come sarebbe proseguita la sua carriera, e se un giorno il dialetto “lagheè” avrebbe superato i confini comaschi; poteva immaginare che sarebbe diventato un caso nel mondo del cantautorato italico? Ci pensarono “i cauboys” che da anni seguono le sue tourneè a diffonderne parole e note, mentre il buon Davide vinceva premi autorevoli della critica specializzata e si affrancava da quel mondo leghista che con entusiasmo aveva accompagnato la sua genesi.
Anche se, a dire la verità, i primi ad accorgersi del personaggio furono le associazioni no profit alle quali Van De Sfroos regalava affollati concerti. L’avvento degli anni Duemila ha confermato, poi, la capacità del Bernasconi (vero nome del nostro), di trasmettere allegria e commozione raccontando con le sue canzoni, musicalmente debitrici della cultura folk rock con influenze celtiche e caraibiche, personaggi e storie di un mondo in bilico tra “l’albero degli zoccoli” e la modernità della metropoli con tutte le proprie contraddizioni e attrattive, non dimenticando la religiosità popolare, inscritta nel DNA di ogni uomo, affrontando il disprezzo dei “benpensanti”.
Contrabbandieri maldestri, improbabili rapinatori, costruttori di motoscafi, emigranti, matti, prostitute e varia umanità raccontata con un occhio a De Andrè e l’altro a Johnny Cash: un mix che si è imposto sempre più a livello nazionale fino ad arrivare alla consacrazione televisiva dell’ultimo Festival di Sanremo, dove il suo brano, “Yanez”, è stato l’unico soffio di allegria.
Dopo un album come “Pica”, perfetto nel suo equilibrio narrativo, che conteneva quel gioiellino di “40 pass”, era difficile ripetersi, ma questo nuovo “Yanez”, che parte con la festaiola “El carneval de Schignan”, testimonia la fluidità fabulatoria di Davide, che, aiutato da una compagine di musici compatti e concentrati sul risultato, sforna una interminabile sequenza di quadretti color pastello: la cabarettistica “Setembra”, l’autobiografica “Dona lùserta”, l’epica “Il reduce”, la cinematografica “La figlia del tenente”, “La macchina del Ziu Toni”, una ballata alla “Certe notti”, Ligabue style, l’hit “Yanez” e l’immancabile finale dedicato al vento.
Un album, forse, più riflessivo, meno caustico, ma che non paga pegno al nuovo ruolo, più “nazionale” dell’autore.