«Addio cultura umanista, per i ragazzi non ha senso» era il titolo di un articolo di Repubblica a firma Marco Lodoli che il 31 ottobre scorso cestinava in poco più di seimila battute la tradizione classica che ha affascinato generazioni di studenti. Lodoli, sulla base del lamento di una professoressa che gli confessava in lacrime i disinteresse dei propri studenti, sottolineava che ormai solo in qualche liceo classico forse qualcuno può ancora essere interessato alla cultura umanista. Ma si tratta ormai di un’élite.
QUELLA CLASSE NON LA VOGLIO. Rispondendo alla provocazione, alcuni professori del liceo Don Gnocchi di Carate Brianza hanno domandato a Mariella Carlotti, saggista e insegnante di Lettere, che ha cominciato la sua carriera nei licei per finire in un istituto tecnico, se la visione di Lodoli rispecchiasse la realtà della scuola. «Anche io, quando ho iniziato 16 anni fa nell’istituto dove insegno, ho pianto per due anni». Il timore di affrontare “certe” classi era grande: «Mi fermavo nelle stazioni di servizio tra la scuola e casa», confessa. Poi il preside dell’istituto le chiese di diventare l’insegnante di una classe particolarmente turbolenta, un gruppo di ragazzi che già avevano “fatto scappare” molti docenti. All’inizio, Carlotti rispose «di no», ma dopo l’insistenza del preside – «poiché sono convinta che quando la realtà insiste bisogna rispondere» – accettò a malincuore, anche spinta da una considerazione che da allora non l’ha più abbandonata. «Uscita dalla presidenza ero in lacrime, ma poi pensai: “E se questa classe mi fosse data per cambiare e imparare io?”». Da allora la docente ha iniziato a insegnare cercando di verificare, di volta in volta, questa ipotesi “positiva”, aperta a quel che può succedere, non infiacchita già in partenza da un lamento sterile.
UN POETA SFIGATO DELL’OTTOCENTO. Carlotti ha spiegato che «uno riesce a cambiare gli altri solo se cambia sé» e pensa che l’alunno che ha davanti non è “un tipo sbagliato”, ma «quello ideale che serve a te per crescere». È accettando questo che la professoressa ha cominciato ad essere creativa: «Pensai a come affrontare la prima ora con quella classe». Vi erano sette alunni pakistani “difficilissimi”, e Carlotti decise che la prima ora sarebbe stata dedicata a un grande della letteratura: Leopardi. «Mi chiesi: “Ma che gli frega a questi di Leopardi?”. E finii per domandarmi: “Ma che me ne importa a me?”. Così per dieci giorni studiai a fondo le sue poesie per prepararmi».
Le prime parole entrate in classe, le rammenta ancora: «Vi chiedo solo un’ora ragazzi, dopodiché deciderete se seguirmi o meno per tutto l’anno. Ma non deve essere un’ora qualunque. Quella che vi chiedo è un’ora “da uomini”». Fu così che, parlando loro del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – guarda caso: un pastore pakistano –, la lezione spiccò il volo. E quelle che erano le domande di un poeta dell’Ottocento divennero le domande dei suoi alunni. «Dopo la spiegazione iniziai a interpellarli: “Giovanni senti come tua questa poesia?”, “sì”: “Mohamed?”, “sì” e così via. Fu allora che proposi loro di percorrere assieme la strada per scoprire dove portano quelle domande universali».
IL CONTRARIO DEL BUONISMO. Il punto, secondo la professoressa, è non farsi prendere dalla fregola di voler cambiare per forza gli altri. Un insegnante, un educatore, deve avere innanzitutto il problema del proprio cambiamento. «Cioè il problema di conoscere il proprio destino, di percorrere il proprio cammino. Solo così si favorisce anche quello dei ragazzi. Il cui percorso e i tempi non sono stabiliti da noi». Altrimenti «cerchiamo di cambiare gli altri e, siccome non va come vogliamo, rimaniamo frustrati. Attenzione non significa che mi piego a quel che non è giusto, il mio non è buonismo né camaleontismo. Anzi. È solo se sei onesto con la verità che cerchi, che non cedi a facili compromessi. Per conoscere si fanno milioni di tentativi e spesso si sbaglia, ma so che quello che passa ai miei alunni è una passione leale per la mia vita, per quella degli uomini del passato e per la loro».