Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Noto per il suo spietato Pietro Savastano di Gomorra, ruolo che l’ha consacrato alla fama non solo nazionale, Fortunato Cerlino, ora al cinema con Falchi di Toni D’Angelo, nei panni del poliziotto centauro Peppe, ha una sensibilità artistica e umana non comune, e un percorso personale e professionale che s’intreccia in un gioco di conseguenze.
Lei è nato e cresciuto in periferia: come si è avvicinato alla recitazione?
Colto in flagrante, direi: sto scrivendo un progetto che parla anche di questo… I motivi veri, credo, non li saprò mai, però penso sia per un senso di rivalsa. Sono cresciuto in una provincia difficile, dove si è immersi in una confusione fondamentale e la violenza è un effetto secondario. Lì l’assenza di chi governa genera abbandono, non rispetto per la persona, sconfitta e dunque rabbia. Raccontare questi luoghi è difficilissimo e la mera cronaca non rende la solitudine che provi quando puoi vedere un morto a settimana e assistere passivamente a gesti violenti; quando la mancanza di uno stato civile diffonde drammaticamente tra la gente la rassegnazione. Però, in un circuito dove si risponde alla violenza con la violenza, dove si usa lo stesso linguaggio del rapinatore, ci sono dei mondi interiori dei quali parlare. Parlare di Stato, di scuola, di insegnanti coraggiosi e agire come dei globuli bianchi, irrorando di cultura, educazione allo stato sociale e di diritto: sconvolgere con l’aggregazione per offrire un linguaggio diverso, un dubbio, un’alternativa alla violenza. Ora sto lavorano proprio su questo.
L’inclinazione all’arte non è una novità in famiglia…
Un germe artistico c’è da qualche generazione. La mia bisnonna era prima ballerina al San Carlo. Per conquistarla – cito questa breve storia tragica –, il mio bisnonno, che ne era follemente innamorato, una sera l’attese fuori dal teatro e le sfregiò il volto. Pare tuttavia si amassero molto. Un gesto primitivo, certo, ma all’epoca era abbastanza comune: sfigurare una donna per “marchiarla” agli altri uomini. Ne derivò una carriera mancata che forse ha seminato un po’ nella famiglia materna una vocazione per l’arte. Forse è per questo che anche mio nonno, operaio, non si sa come né perché, amava tanto l’opera e cantava sempre davanti allo specchio. Ma ho scoperto che anche da parte paterna – e mio padre aveva 28 fratelli – ci sono stati talenti simili. Quasi si fosse tramandato un compito da assolvere, un testimone che, per quel che mi riguarda, ho raccolto.
Dalla volontà di raccontare la periferia dipende anche la scelta dei ruoli?
Senz’altro. Ma, più che raccontare, è volontà di cercare risposte. Anni fa feci un sogno che penso di non aver mai confidato. È ambientato a Pianura, con uno spettacolo in un parco degradato, la gente che varca un cancello come quello di Auschwitz, e un mago che guarda tutti negli occhi, ipnotizzandoli. Le persone allora iniziano a scarnificarsi, a perdere pezzi di sé: io li avviso che stanno morendo in piedi, ma loro mi guardano attoniti, incuranti. Da allora c’è in me l’impulso di capire perché ci lasciamo rapire da una non-vita invece di cercare il senso delle cose. Come una febbre che mi porta a guardare la realtà per trovare risposte, o magari domande più precise. Perciò, anche nel lavoro, mi oriento verso personaggi che hanno delle complessità, delle contraddizioni interiori da far vivere, senza mai giudicarli. Savastano e Peppe li ho affrontati così, in un movimento continuo di quesiti aperti.
E dopo Gomorra cos’è cambiato?
La possibilità di scegliere. Dopo Gomorra ho ricevuto molte proposte che ho potuto rifiutare, perché mi interessavano personaggi più profondi. Finché avrò questa condizione privilegiata di scelta, dirò “no, grazie” a ruoli lineari e superficiali. Ho avuto la fortuna di incontrare maestri che mi hanno insegnato a leggere, a cogliere cioè quel che non si vede: indizi che la banalità o la fretta celano. Sono viziato da questo metodo, però mi accorgo subito se una storia ha delle porte segrete da oltrepassare.
Sappiamo che lei pratica una disciplina del buddismo tibetano. Quanto influisce sul suo lavoro?
Pratico lo Dzogchen, una disciplina laica che permette di conoscere la propria natura: trovare la consapevolezza di ciò che accade dentro e fuori di noi. Influisce tantissimo sul mio essere attore perché dinnanzi a un nuovo personaggio o una nuova storia, mi consente d’individuarne il punto d’origine, il cuore, quella che io chiamo la “maschera interiore” da cui derivano le caratteristiche del personaggio.
Tra arte e meditazione, quale è il suo percorso?
Nei nomi c’è il destino: un percorso Fortunato. Penso di aver incontrato almeno una volta la felicità, cioè quel senso di libertà che prescinde da tutto e tutti, compreso me stesso. Ma non voglio perdere la curiosità per l’essenzialità delle cose. Quella mi spinge a continuare.
Intanto ci sono nuovi progetti…
C’è un passaggio registico dal teatro al cinema; un progetto narrativo già in cantiere e due film in partenza. Ma ne parlerò la prossima volta. Promesso.
Foto Ansa