Brutta vicenda quella di Luke McCormick, l’ex portiere del Plymouth Argyle le cui faccende calcistico-giudiziarie interrogano l’Inghilterra. Il calciatore fu protagonista di una brutto fatto di cronaca risalente al 7 giugno 2008, quando alla guida della sua auto provocò la morte di due bambini. Tornava dal matrimonio del compagno di squadra David Norris, era ubriaco fradicio e la sua Range Rover andò a sbattere contro la Toyota della famiglia Peak, uccidendo appunto Arron e Ben, e costringendo alla sedia rotelle il padre Philip, con danni irreversibili alla colonna vertebrale.
Fu una vera tragedia, che portò il numero 1 dei pilgrims in carcere. Il suo contratto col club fu rescisso, il giudice lo condannò a 7 anni di reclusione, tra l’indignazione unanime. Sembrava un caso archiviato, fino a qualche mese fa: le norme sulla scarcerazione anticipata hanno posto un termine alla sua condanna, fissando per giugno 2012 la sua data di ritorno alla libertà. E lo Swindon Town, club allenato da Paolo Di Canio, ha offerto al giocatore la possibilità di tornare a giocare, accogliendolo in squadra in prova per qualche mese. Coi railwaymen (neopromossi in League One) McCormick si allena già da gennaio, approfittando del regime di semilibertà che gli è stato concesso, ed è destinato anche a prendere parte al tour estivo della squadra, in Italia.
Ma la possibilità che il club biancorosso sta concedendo al portiere non piace alla famiglia Peak: il dolore e la rabbia comprensibile dei due coniugi ha trovato grande risonanza su molti quotidiani, dove ci si chiede se sia giusto riammettere nel mondo del calcio questo giocatore, che in sede processuale si era difeso giurando che non sarebbe più tornato a giocare a calcio. «Noi siamo la parte lesa», dice il Philip Peak. «Abbiamo perso i nostri ragazzi perché McCormick guidava ubriaco e lui, invece, non solo torna in libertà dopo meno di quattro anni, ma gli permettono pure di fare il lavoro che vuole». Anche i tifosi dello Swindon hanno fatto sapere di non gradire l’arrivo dell’ex-numero 1 del Plymouth Argyle.
Insomma, è una notizia che già ha suscitato tanta indignazione, e che si porta appresso diverse domande. In primis viene da chiedersi se sia sufficiente una pena di 7 anni, ridotta a 3 e mezzo, per una persona colpevole di guida in stato di ebbrezza e di conseguente duplice omicidio. Comprensibile che la gente si arrabbi, specie i familiari, di cui non oso immaginare l’enorme dolore con cui vivono da quel 7 giugno 2008.
Di fronte alla ragionevole stizza per il dubbio comportamento della corte inglese, resta invece difficile capire l’indignazione con cui gran parte della stampa guarda alla scelta coraggiosa dello Swindon. Le parole di Jeremy Wray, presidente del club, sono chiare: «Siamo vicini alla famiglia delle due piccole vittime, perché questa tragedia ha distrutto le loro vite, ma il giocatore ha scontato la sua pena e noi vogliamo dargli la possibilità di rifarsi una vita». Perché non offrirgliela? Non ci si può barricare dietro lo strascico emotivo della vicenda (che c’è da credere sia angosciante anche per il giocatore stesso, tra rimorsi e sensi di colpa): espiata la pena, anche lui deve essere lasciato libero di tornare alla normalità. Ugualmente, non si può brandire come deterrente l’inflazionato cliché della vita comoda e rammollita del calciatore, cui è ingiusto che un condannato possa ritornare. Ricordiamoci che i giocatori sono professionisti, e il loro è pur sempre un lavoro. Strapagato, facile quanto tirare due calci ad un pallone… definitelo con tutti gli aggettivi che volete, ma è un mestiere che ha lo stesso status dignitario delle altre professioni: è ciò con cui loro riescono a vivere, l’espressione più alta e creativa del loro talento al servizio della società. Perché McCormick non può tornare a farlo?