Tre settembre 1982, via Carini, Palermo, ore 21. Due motociclette affiancano all’improvviso la A112 su cui il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, eroe del contrasto alle Br e in quel momento prefetto a Palermo dove è impegnato nel contrasto a Cosa Nostra, e la moglie Emanuela Setti Carraro viaggiano per andare a cena. Le due motociclette aprono una selva di colpi di kalashnikov, uccidendoli sul colpo. È la fine della storia di un uomo che sta drasticamente segnando un cambiamento nelle investigazioni sulla mafia. Sono passati trent’anni da quel giorno. Ripubblichiamo alcuni stralci dell’intervista al generale dei carabinieri Mario Mori, che di Dalla Chiesa è stato un vicino e fedele collaboratore, apparsa su Tempi numero 51/2011.
Generale Mori, parliamo degli inizi della sua carriera. 16 marzo 1978. È il giorno in cui viene rapito Aldo Moro in via Fani a Roma e lo stesso in cui lei arriva a Roma nella sezione Anticrimine guidata dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si tratta di un metodo investigativo che ha poi segnato anche le successive indagini, di Dalla Chiesa e poi del suo Ros, nei confronti della criminalità organizzata.
Il metodo investigativo del Generale Dalla Chiesa è utile sicuramente a spiegare anche la mia stessa storia. Fu un fatto innovativo quel metodo di lavoro. Mi ritrovai in quel gruppo di giovani ufficiali che il generale Dalla Chiesa aveva raccolto intorno a sé, inizialmente solo in modo esclusivo sulle Brigate Rosse. Era la prima fase dell’attività: ricordo che dovemmo improvvisare tutti. Non eravamo dotati professionalmente di strumenti idonei a contrastare un fenomeno completamente nuovo come il terrorismo. I più vecchi tra i miei colleghi si ricorderanno come all’epoca si lavorava secondo un certo stereotipo: c’era un fatto, si facevano le solite perquisizioni, poi il rapporto giudiziario, poi si chiedeva qualche intercettazione telefonica. Tutto era molto episodico però, formale. In effetti gli avversari che ci trovavamo di fronte erano di qualità molto superiore al ladro di polli. Dovemmo creare ex novo una mentalità professionale e in questo ci aiutò moltissimo il generale Dalla Chiesa, il quale quasi per istinto più che per convinzioni aveva il “piglio del manager” nelle investigazioni ed era almeno 20 anni avanti su tutti i suoi colleghi. Su questa base nacque una struttura nuova, sul presupposto che non ci trovavamo più davanti al semplice criminale, ma ad un’associazione per delinquere strutturata in più parti del territorio italiano. Per cui non bastava una sola operazione per distruggerla: avevamo bisogno anzitutto di conoscerla nelle sue ramificazioni e nelle sue tecniche. Poi affrontarla partitamente a seconda delle possibilità investigativa. Per cui nel nostro lavoro partimmo con l’obiettivo di riuscire ad avere sull’avversario una superiorità informativa. Dovevamo sapere il più possibile di lui, e far sapere il meno possibile di noi. Questo è il fulcro del metodo Dalla Chiesa, che poi tornerà anche sulle indagini sulla mafia: una persona è un “filo” anche per scoprire le associazioni criminali. Non è possibile affrontare Br, così come Cosa nostra, in una sola volta, ma in base alle acquisizioni sul “campo”. E quando ad un certo punto ci sono le condizioni per intervenire, bisogna stare attenti a non fare tabula rasa sull’associazione per non tornare, altrimenti al punto di partenza. Per questo anche dopo (nel Ros, ndr.), sempre d’intesa col magistrato, abbiamo voluto lasciare sul campo qualche spunto che ci consentisse di andare avanti nell’investigazione. Detto in parole povere, “dovevamo tenerci la gallina dalle uova d’oro”.
C’è un episodio che racconta meglio di altri del suo lavoro con Dalla Chiesa?
Ci sarebbero davvero così tante cose da ricordare, anche sul carattere di quest’uomo! Io avevo già lavorato con Dalla Chiesa prima, e proprio quel 16 marzo ’78 tornai di nuovo a lavorare con lui, al comando della sezione Anticrimine. Per quanto riguarda il metodo di lavoro, penso che l’episodio significativo che possa sintetizzare tante cose sia il blitz di via Montenevoso a Milano, nell’ottobre del ’78, anche se non vi ho partecipato personalmente. Tutto è cominciato davvero per un colpo di fortuna: nella mia carriera ho imparato che anche questa è una componente importante. Il ritrovamento su un autobus di un borsello, che apparteneva al brigatista rosso Lauro Azzolini e che dentro conteneva la chiave di un appartamento. Individuammo una certa zona di Milano e poi provammo la chiave finché non trovammo l’appartamento giusto. Sa quante altre volte negli anni mi è capitato di dover battere interi quartieri, palmo a palmo, per individuare la toppa giusta di una chiave? E tutte le volte, maledicendo dentro di me quella chiave! L’appartamento giusto era quello di via Montenevoso e iniziammo il servizio di osservazione da un palazzo di fronte (l’osservazione, insieme al controllo, al pedinamento e alla conoscenza di tutta la cultura del’”nemico” è stato uno dei punti centrali delle investigazioni di Dalla Chiesa). Dalla Chiesa era una persona, per capirci, che pretendeva che noi del nucleo imparassimo il vocabolario delle Brigate rosse, studiando i loro volantini, perché era convinto che la conoscenza del nemico, della sua mentalità e del suo linguaggio ci avrebbe aiutato a prevenirne le mosse.