Quella sugli «stranieri che fanno lavori che i nostri giovani snobbano» è apparsa più che altro una provocazione, ma le parole pronunciate qualche giorno fa dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti a margine dei lavori del Fondo Monetario Internazionale fanno riflettere. Il titolare dell’Economia ha addebitato a una sorta di “snobismo” dei giovani italiani la loro disoccupazione; gli ha risposto il ministro dell’Interno Roberto Maroni affermando che in realtà sono tanti i giovani che accettano i lavori più umili e manuali.
Lasciando da parte la polemica politica, è utile prendere nota di un dato molto interessante, di cui si è occupato diffusamente lo speciale di PiùMese dedicato al capitale umano di poche settimane fa. Nel 2009 (dunque a crisi già iniziata) le imprese del nostro paese cercavano 214 mila diplomati tecnici e professionali. Gli stessi dati Excelsior-Confindustria rivelano che la richiesta è cresciuta a 236 mila nel 2010; anno in cui le scuole ne hanno “sfornati” solo 126 mila. Significa che lo scorso anno il sistema produttivo italiano aveva bisogno di 110 mila diplomati tecnici e professionali e non li ha trovati.
Sono numeri importanti e significativi. Ed è in questo quadro che l’invito a riscoprire il cosiddetto “lavoro manuale” (ne parla oggi nel suo editoriale sul Corriere anche Dario Di Vico) non deve essere interpretato come uno sprone ad abbassare le proprie “pretese professionali”, ma piuttosto a tenere conto delle esigenze del mercato e delle sue prospettive nella scelta del mestiere, fin dalla formazione iniziale. Un richiamo alla responsabilità che comincia dall’orientamento delle scuole, come, sempre su PiùMese capitale umano, ha spiegato il capo del Dipartimento Programmazione del ministero dell’Istruzione, Giovanni Biondi.
Ancora Di Vico nota come sia il made in Italy ad averne bisogno. Lo dimostra l’esperienza del Salone del Mobile che Milano si è appena lasciata alle spalle con il consueto, eppure sempre sorprendente, successo.