«Il Dna già nella pancia, così sapremo il destino del bimbo che nascerà: un supertest per 300 malattie genetiche». Con questo entusiasmo titolava giovedì scorso Repubblica la notizia di una sperimentazione americana dell’Università di Washington sui bambini in gestazione. A differenza dell’amniocentesi, fallibile e rischiosa per la vita del bambino, questo test si avvale solo del sangue della mamma in cui sarebbero contenuti alcuni frammenti del Dna del figlio.
Ma, come denuncia il Daily Telegraph, questi frammenti sono incompleti e il test non è affatto sicuro: né per la madre né per il bambino. Scrive il quotidiano inglese sotto il titolo “Screening genetico dei bambini non ancora nati, «potrebbe essere impreciso»”: «Predire il Dna di un feto di 18 settimane solleva questioni etiche importanti visto che potrebbe condurre a un incremento ulteriore di aborti». Molti esperti hanno ridimensionato l’attendibilità del test, sia perché genera ansia «inutilmente, dato che è davvero difficile sapere quanto una mutazione genetica possa affliggere un bambino durante la crescita», sia per «la bassa attendibilità del test». Uno dei massimi esperti di infertilità, Lord Winston, ha infatti ricordato «l’ansia inutile che genererebbe nelle donne».
Dall’Istituto nazionale di ricerca clinica del Regno Unito arriva poi un monito più generale sui test prenatali: «Se fa impressione pensare di poter conoscere la mappatura genetica di un embrione, nella maggioranza dei casi non siamo in grado di sapere come il bambino nascerà e nemmeno la natura o la gravità di qualsiasi anomalia genetica che il bambino potrà o meno sviluppare». Ma c’è di più, per Winston tutti i test prenatale «fanno più male che bene alla persone». Spesso, come dimostrano i dati inglesi, hanno portato ad abortire bambini completamente sani. Ma di questo Repubblica non parla.