“Galeotto il libro e chi lo scrisse”. Con una facile ironia liceale, sbianchettando giusto un verbo dal celebre verso dantesco, ci si potrebbe anche concedere una battuta. E poi, qualcosa di (potenzialmente) infernale c’è. La vicenda – esplosa su tutti i giornali, sembra fatta apposta per le cronache agostane d’altronde – è quella che vede protagonista Daniele Ughetto Piampaschet. Aspirante scrittore e, almeno secondo la procura torinese, assassino. Si sono versati fiumi d’inchiostro, dopo che ieri “La Stampa”, nella cronaca cittadina, ha dato per prima la notizia. La rete trabocca di lanci e rilanci, con ovvio corollario di inesattezze. Su google, se si scrive Daniele, Ughetto Piampaschet giunge come suggerimento.
Il laureato in filosofia, figlio inquieto della provincia torinese, spesso disoccupato anche se abbondantemente trentenne, si è visto promosso scrittore. Addirittura in prima pagina, su più di un quotidiano. Il prezzo di essere anche “l’assassino”, evidentemente, è troppo alto per la realizzazione mediatica del sogno (con il rischio che questo poco più del quarto d’ora warholiano, costi anni di carcere).
Chi scrive è concittadino e quasi coetaneo – ci separano una manciata di mesi – del presunto assassino. Queste righe, tra cronaca e giudizio, nascono spontanee. Qualcosa in più del “mestiere” del cronista di provincia, che pure – e senza vergogna – sono.
Intanto, in breve, i fatti. I carabinieri, giovedì scorso, hanno arrestato, al suo rientro da Londra, dove lavorava alla logistica nell’ambito delle olimpiadi, il 34enne Daniele Ughetto Piampaschet. Lo hanno prelevato in casa dei genitori, a borgata Barone, parte montana di Giaveno (17 mila abitanti, sospeso tra il titolo di città e le abitudini del paese). L’accusa è gravissima: secondo gli inquirenti è l’assassino della prostituta nigeriana Anthonia Egbuna (20 anni). Il suo corpo fu ripescato nel Po, in avanzato stato di decomposizione, lo scorso febbraio. Per lungo tempo, fino al successo con la tecnica del “nero-fumo”, non si era riusciti nemmeno a dar un nome a quel corpo brutalmente devastato da decine di coltellate. Partono allora le indagini. Si sentono gli ambienti della prostituzione e si interrogano le “amiche” della vittima. L’abitazione in uso alla ragazza viene perquisita. Dai racconti delle coinquiline e dall’analisi del traffico telefonico della vittima, si risale al giovane giavenese. La accompagna con la sua Punto, hanno condiviso momenti insieme, l’hai (da febbraio del 2011 al giorno prima della scomparsa di Anthonia) chiamata oltre 1900 volte. Ma la prova regina è il manoscritto del romanzo “La rosa ed il leone”. Ritrovato nell’appartamento, vi si descrive, con inquietanti analogie ma non senza significative differenze con il caso di Anthonia, l’omicidio di una prostituta di colore da parte di un giovane italiano che, innamoratesene, cerca senza successo di allontanarla dalla strada. Una confessione in forma di romanzo, secondo i carabinieri e la procura.
Tutto troppo ghiotto. Ed, infatti, da ieri, è abbuffata di commenti, analisi, certezze. La realtà è recensita, davvero fosse solo “come un romanzo”. Vivisezioni. Non aiuta, poi, la foto che di Ughetto è stata diffusa. Con i capelli lunghi e disordinati, lo sguardo perso. Il ritratto perfetto di uno scapigliato sfigato. La dichiarazione dell’amore per l’Africa e le prostitute. Il definirle muse ispiratrici. Il presentarsi come colui che tenta di strapparle al marciapiede. Tutte scelte che ne fanno il condannato annunciato. Conta poco, nel tribunale mediatico, che il padre ci metta la faccia per difendere il ragazzo. Per confermarne il buon cuore. Ma questo, perdonatemi, non mi interessa.
Credo, piuttosto, e lo dico prendendo sul serio quanto mi unisce (età, luogo di nascita e di vita, qualche amico comune in passato) a Daniele, che sia altro che questa storia – un po’ kafkiana, ammettiamolo – consegna alla nostra riflessione.
La testimonianza dell’insufficienza della spinta volontaristica, intanto. Anche se fosse tutta vera la sua versione; il suo modo di vivere e di viversi, conferma quanto sia illusoria la pretesa di fare il bene da soli, con le proprie forze. Scrivere da sé la propria vita (voler essere autore, protagonista ed autoemulatore) non è che una tremenda illusione. Non bastano le nostre forze per fare il bene. Vero, non esiste il bene disincarnato (moralisticamente depurato dall’interesse), ma senza un’educazione ed un ricamo, non riusciamo ad essere che la scimmia di quell’eroe che l’ego ci vorrebbe.
La sconfitta (l’ennesima) del mito della palingenesi moralista. Il giovane ha studiato in quell’Università dove regnano “miti giacobini” e “debolisti alla moda”, ma… non ha certo fatto irruzione nella sua vita una novità capace di farsi certezza, roccia salda. Non basta il moralismo. L’uomo – tanto per rimanere in filosofia – è “legno storto”.
Ma ce n’è anche per noi. Per me. Per chi abita la provincia italiana e la teorizza prima di contraddizioni, sofferenze, miserie. Dove eravamo? Dov’ero? Che ne rimane del “ci conosciamo tutti”, del “basta uno sguardo per capirsi”. Quante volte – comunitarismo amorale, sia concesso il neologismo – quello sguardo l’abbiamo, semplicemente, voltato dall’altra parte.
Ecco, questo giovane come me, rivela la più tragica delle precarietà. E non è una questione di stile, ma di sostanza. Altro che sociologia!