Caro direttore, abbiamo visto che Halloween non è più una festa religiosa ma una sorta di festa laica dedicata al genere horror. Tuttavia, il cristiano non deve averne paura, perché Halloween è nata come una festa cattolica e può tornare ad esserlo in ogni momento. Non deve neppure disprezzarla, perché i suoi contenuti horror giocano implicitamente a favore della fede. Nella mia precedente lettera ho spiegato che, sebbene non sia cristiano al cento per cento, il genere horror comunque è ricco di richiami alle realtà soprannaturali e preternaturali. Quindi ho concluso che Halloween, anche se ha perso i contenuti religiosi espliciti, «può essere tutto fuorché una festa materialista». Una amica lettrice ha subito commentato: «Ma il cristianesimo cattolico è materialista! Caro cardo salutis, la carne è il cardine della salvezza». Ecco, quella frase mi ha fatto riflettere sul fatto che, effettivamente, noi cristiani siamo talmente disgustati dal materialismo ateo che a volte, per reazione, diventiamo un po’ troppo… spiritualisti. Rischiamo di dimenticare che non si può essere pienamente spiritualisti se non si è pienamente materialisti. Disgustati dal culto ateo-pagano del corpo, rischiamo di guardare con un certo disprezzo al tempio dello spirito, che è la carne. Per sconfiggere la morte, Cristo ha dovuto incarnarsi. È la carne a morire, è la carne a risorgere.
E a proposito di morte… mi vengono ora in mente due grandi film: Zombi – L’alba dei morti viventi di George Romero (Usa, 1978) e Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (Svezia, 1957). Il primo è un film di genere horror pieno di azione e tensione, mentre e il secondo è quello che si dice un film d’arte, in cui parole e immagini si fondono assieme, divenendo pura poesia. Sebbene dunque appartengano a due “mondi” cinematografici completamente diversi, questi film si somigliano in primo luogo perché entrambi sono considerati capolavori ineguagliabili, in secondo luogo entrambi ruotano attorno tema della morte, in terzo luogo perché sono entrambi disperati, ma non lo sono fino in fondo. Appartengono a quella categoria di grandi opere d’arte che suscitano un senso di disperazione ma allo stesso tempo lasciano aperto uno spiraglio verso un mistero superiore, che è fonte di speranza.
Se Bergman chiede alla morte di rivelargli il senso della vita, invece Romero non ha nulla da chiedere alla morte: ne ha solo orrore. Se Bergman trasforma la morte in un personaggio allegorico, invece Romero, si potrebbe dire, “sbatte” la morte in faccia allo spettatore, mostrandone gli aspetti più ripugnanti. Il tema della carne e il tema della morte si incontrano nel corpo in disfacimento dei morti viventi, altrimenti noti come zombi.
Non si può negare che la stragrande maggioranza dei film sugli zombi siano men che mediocri, ripetitivi, non di rado perfino ridicoli (per la gioia dei cultori del cinema “trash”). Invece, Zombi di Romero può appassionare anche chi gli non sopporta né gli zombi né il genere horror in quanto l’apocalisse zombi appare chiaramente come una metafora molto fantastica di qualcosa di molto reale. Secondo l’interpretazione che va per la maggiore, gli zombi di Romero, convinto socialista, rappresenterebbero i “dannati della terra”, gli sfruttati, gli emarginati, le vittime delle ingiustizie sociali. Ma in realtà, in Zombi il piano del significato politico, ammesso che ci sia, è totalmente sopraffatto e oscurato dal piano del significato filosofico-esistenziale: l’apocalisse zombi appare come una metafora della condizione umana nel quadro di una visione materialista dell’esistenza.
Nel corso del film non si sente mai parlare né di Dio né di aldilà, se si esclude un laconico accenno all’inferno: «Quando l’inferno è pieno, i morti tornano sulla terra». Il film inizia “in medias res”: il mondo è invaso da orde di morti viventi affamati di carne umana viva. Nessuno sa quale possa essere la causa di questa catastrofe e nessuno si preoccupa neppure di cercarla. L’unica cosa di cui tutti si preoccupano è di salvare la pelle. Dunque, abbiamo da una parte corpi umani morti in cerca di corpi umani vivi, e dall’altra corpi umani vivi che cercano di fuggire dai corpi morti. Ma la loro fuga dai morti e dalla morte non può durare a lungo. Che sia per il morso di uno zombi o che sia per la vecchiaia, tutti i corpi sono destinati a perire. Quindi, fra i vivi e i morti viventi alla fine sembra non esserci molta differenza. Nel quadro di una visione materialistica, l’essere umano non è altro che un corpo materiale che ha soltanto bisogni materiali che può soddisfare consumando beni materiali (d’altra parte il materialismo dialettico marxista afferma che i bisogni “spirituali” son soltanto “sovrastruttura” ossia rappresentazione dei bisogni materiali). Quindi, l’unica possibile differenza fra i vivi e i morti viventi è che i primi possono consumare merci mentre i secondi no.
Veramente geniale appare l’idea di fare vagare i morti affamati in un centro commerciale. Questi templi post-moderni del consumismo si somigliano tutti fra loro: quello che si vede nel film è simile in tutto e per tutto anche a quello in cui va normalmente ciascuno di noi. Quando vediamo le folle che sciamano alla ricerca spasmodica di merci attraverso i corridoi di uno di quei giganteschi non-luoghi, ci può dunque capitare di pensare alle orde degli zombi che vagano alla ricerca spasmodica di carne viva. È significativo che l’istinto trascini i morti viventi proprio in quel luogo: «Era un posto importante per loro quando erano vivi». Ma ora che sono morti tutte quelle merci incustodite, che potrebbero saccheggiare tranquillamente, non servono loro a niente. Si è mai vista al cinema una critica più efficace al consumismo, questo idolo che riempie l’uomo di soddisfazioni materiali effimere? Delle merci consumate e in generale di tutte le soddisfazioni materiali nulla resta dopo la morte. Viene da pensare alla parabola evangelica del ricco stolto, che muore all’improvviso dopo avere accumulato invano montagne di beni (Luca 12,16-21).
Infine, dal punto di vista formale, il film è di altissimo livello. Il regista mostra immagini truculente (ferite sanguinanti, carni lacerate, carni decomposte, teste mozzate e chi più ne ha più ne metta) non per solleticare i bassi istinti (sadici, morbosi) degli spettatori ma per suscitare e amplificare in loro l’orrore verso il processo di decomposizione e distruzione della carne, inteso appunto come destino finale dell’uomo in un’ottica materialistica. Inoltre Romero costruisce con estrema abilità scene d’azione che coinvolgono parecchie decine di comparse, dinamizzandole al massimo per mezzo di un montaggio serrato (in fase di montaggio fu direttamente coinvolto anche il nostro Dario Argento). Straordinaria la colonna la sonora firmata dagli italianissimi Goblin, che amplificano l’atmosfera angosciosa del film con suoni strani, inquietanti, cupi, che ora rallentano e ora accelerano sulla base di ritmi rock incalzanti.
Nel film non c’è né speranza né fede. Ma anche se sei un materialista convinto, dopo avere visto Zombi può capitarti di pensare che sarebbe meglio se la realtà non fosse solo materia e la morte non fosse la fine di tutto. Insomma, può capitarti di pensare che sarebbe meglio se Dio esistesse veramente (e se oso proporre un film estremo come Zombi è perché è stato uno di quei film che mi hanno spinto a cercare la fede quando ero ancora lontana dalla Chiesa). In conclusione, questo film suscita un salutare senso di disperazione, che ti spinge a cercare dove può essere la speranza.
E veniamo a Il settimo sigillo, un film talmente grande che quasi si ha paura di parlarne. L’unica pecca del film, se proprio bisogna trovarne una, è che è pieno di luoghi comuni tipicamente protestanti contro il Medioevo cristiano, visto come un’epoca oscura in cui la fede si sarebbe fusa e confusa con la superstizione. Per Bergman la Chiesa non è altro che una organizzazione di preti e teologi che cercano di sfruttare il bisogno di fede della gente per sottometterla al loro volere. Il pratico e carnale scudiero Jons ci informa che il suo padrone, il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow), ha perso dieci anni della sua vita a combattere inutilmente in Terra Santa perché un teologo lo aveva ingannato col suo “veleno celestiale”. E quando la Svezia è devastata dalla peste nera, quel teologo rinnega la sua fede e diventa un banale ladro che spoglia i cadaveri.
Il film si apre col cavaliere e il suo scudiero che arrivano su una spiaggia della loro terra natale. Di fronte al mare freddo e lucente, la morte in persona si presenta improvvisamente al cavaliere. Anche se sa che non potrà mai sconfiggerla, il cavaliere la sfida a scacchi. Egli spera soltanto di guadagnare, prima dell’inevitabile sconfitta, il tempo necessario per raggiungere il suo castello, dove lo aspetta sua moglie. Nel corso del viaggio, attorno a lui e al suo scudiero si radunano numerosi altri personaggi, ognuno dei quali rappresenta un diverso tipo umano. Il settimo sigillo appare come un perfetto film corale, in cui si osserva il rapporto di ogni personaggio-tipo con la morte, che sta alle costole di ognuno di loro e, durante le soste del viaggio, gioca a scacchi col cavaliere. La grandiosa bellezza delle immagini in bianco e nero, ricche di contrasti fra luci ed ombre, mette in risalto lo sguardo pieno di disperata speranza del cavaliere, che fa alla morte quelle domande di senso cui la fede non ha potuto rispondere. Ma la morte non ha nulla da dire: «Perché non la smetti di fare domande? Tanto, nessuno ti risponde». Allora al cavaliere non resta che interrogare una presunta strega che sta per essere messa sul rogo, chiederle una prova, se non dell’esistenza di Dio, almeno dell’esistenza del diavolo. Ma in fondo ai suoi occhi trova solo la sua stessa disperazione, come in uno specchio.
Le parole che il cavaliere dice al confessore meritano di essere riferite per intero: «Vorrei confessarmi ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini di incubo nate dai miei sogni e dalle mie fantasie. Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?». Ovviamente la domanda di senso del cavaliere, secondo Bergman, non può avere risposta e quindi la disperazione sembra avere l’ultima parola. Ma non tutto è perduto, c’è ancora uno spiraglio verso la speranza: quello spiraglio è la purezza di cuore, la capacità di guardare alla realtà con stupore e gratitudine. Al saltimbanco, che è puro di cuore, è concesso di vedere quello che gli altri non vedono ed è concesso si sfuggire a quello cui gli altri non sfuggono. All’inizio, ha perfino una visione della Madonna col piccolo Gesù. Non importa che quella sia una vera visione o solo una sua fantasia: importa che il suo cuore ne sia riempito di gioia. E infine, riuscirà a vedere la morte che porta via, in una danza macabra in stile medievale, le sue vittime.
In conclusione, in entrambi i film c’è una visione disperata della morte e il desiderio disperato della vita eterna. Al cuore del film di Bergman, c’è la domanda dell’Incarnazione: «Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi?». Nel film di Romero emerge, attraverso il disgusto verso gli aspetti più carnali della morte, la domanda inconsapevole, ignota a sé stessa, della risurrezione della carne. Film come questi ci rendono più consapevoli del fatto che la salvezza può venire solo attraverso la carne. Caro cardo salutis.