Nutrendosi delle notizie di cronaca – per esempio la diffusione dello “spinello” nelle scuole – il dibattito sulla droga è divenuto ormai un tema ricorrente e, diciamocelo, abbastanza noioso. Sull’argomento pare sia già stato detto tutto. Sì, è vero, è stato detto tutto. Eccetto l’essenziale, cioè che si tratta di un problema di cultura e di civiltà.
Proibizionismo o antiproibizionismo. E’ il problema?
A monte della teoria proibizionista c’è questo postulato: l’offerta crea la domanda, ossia la vendita della droga causa la tossicodipendenza. Ma come già avvenne negli anni ’20 in America con gli alcolici, il proibizionismo non stronca l’offerta bensì toglie concorrenti legali allo spaccio illegale. Ne dobbiamo dedurre che l’antiproibizionismo colpirebbe al cuore le mafie dei narcotraffici? Esperienze come quelle dell’Olanda in cui il commercio delle droghe “leggere” è legale, dimostrano il contrario. Ma anche l’opinione diffusa che il proibizionismo riduce al minimo il consumo di droga è smentita dai fatti, tant’è che l’ufficio Onu contro la droga e il crimine (Unodc) comunica che i consumatori di droghe sintetiche nel mondo sono aumentati del 70% (!) negli ultimi cinque anni. E il successo delle droghe sintetiche (33 milioni di consumatori nel mondo per le anfetamine e 7 milioni per l’ecstasy) non è a scapito delle droghe tradizionali (cocaina ed eroina). A titolo di cronaca, fra i 147 milioni di persone nel mondo che hanno fatto uso almeno una volta della cannabis o dei suoi derivati, c’è il 33% dei giovani italiani. Nel complesso il consumo di droga non ha mai smesso di crescere dai primi decenni del secolo scorso. Proprio da quando è in vigore a livello internazionale il regime proibizionista (1912). Ciò non significa che la proibizione fa aumentare il consumo di stupefacenti, significa semmai che non lo riduce. Di fronte a questo sconsolante panorama gli argomenti degli antiproibizionisti appaiono seducenti. Ma se l’immediata dannosità dell’eroina e della cocaina è ben nota a tutti, è meno noto che le droghe “leggere” apportano dei danni irreversibili sul lungo periodo (vedi Consiglio della Sanità cfr. Tempi n. 41). Le anfetamine e i cannabinoidi (hashish e marijuana) favoriscono le malattie psicotiche e la depressione, mentre l’ecstasy danneggia irreparabilmente il metabolismo cerebrale (cfr. E. Renda, Droga. Immaginario e realtà, Armando, Roma 1999). Superfluo ribadire che la droga “leggera” non tiene al riparo dalla tentazione di fare uso della droga “pesante” ma esattamente il contrario (non a caso il consumo di eroina e cocaina è aumentato nei paesi in cui i cannabinoidi sono legali). La maggior parte dei tossicodipendenti sono politossicodipendenti.
I danni della pubblicità P
Qual è il migliore argomento dei proibizionisti? Che la droga fa male, ergo, il miglior modo per combatterla è l’informazione. È il concetto di prevenzione. Ma è possibile che dopo anni di campagne “pubblicità progresso” ci sia ancora qualcuno convinto che la droga “fa bene”? Ovvio che no. Eppure i fatti sopra ricordati dimostrano che informazione e prevenzione non sono servite a dissuadere i consumatori. Anzi. Tali campagne rischiano di rivelarsi un boomerang. Per due ragioni: primo, perché se è vero che la droga fa male è altrettanto vero che ognuno ha il diritto di rovinarsi la salute come meglio crede; secondo, perché se fosse possibile limitare al massimo la dannosità della droga con modi e dosi corrette (illusione tipica di tutti i tossicodipendenti) non ci sarebbe motivo adeguato per rinunciarvi. Questi equivoci sono talmente radicati nell’inconscio collettivo, che se venisse inventata la super-droga che non comporta né dipendenza né danni a lungo termine, nessuno troverebbe argomenti validi per sconsigliarne una diffusione capillare. La profezia di Aldous Huxley, che nel romanzo Il mondo nuovo immaginava una umanità completamente inebetita da una droga salubre (il soma), si realizzerebbe senza troppe proteste.
Conclusioni. Se la mancanza di un’offerta legale di droga è rimpiazzata dall’offerta clandestina, e se la repressione dell’offerta clandestina non scoraggia i suoi consumatori ma tutt’al più li spinge verso surrogati (nei paesi dell’Est i giovani hanno imparato in fretta a cercare i “paradisi artificiali” nei derivati da trielina, sciroppi per tosse, colle viniliche e benzina) c’è una sola spiegazione: non è l’offerta che crea la domanda ma la domanda che crea l’offerta. Il proibizionismo è fallimentare perché non può estinguere l’offerta, l’antiproibizionismo è aleatorio perché asseconda la domanda. In entrambi i casi si elude la domanda più semplice di fronte alla diffusione della droga: perché il suo mercato è in continua espansione? Perché lo “spinello” è diventato consumo di massa tra i giovani? Le risposte non possiamo continuare a cercarle nella sociologia e nella psichiatria, visto che il consumo di stupefacenti interessa tutte le categorie socio-economiche e, come rileva uno psichiatra, «la trasversalità dei fenomeni di dipendenza che… tocca tutte le classi sociali, trova, nel campo delle strutture di personalità, rappresentatività altrettanto significativa» (E. Renda, cit.).
Droga, utility del mondo moderno
Un indizio utile per rispondere alla nostra domanda lo troviamo nella storia, la quale ci informa che le droghe naturali, per quanto ben note, facili da reperire e relativamente economiche, non hanno mai avuto mercato in Europa prima della fine del XVIII secolo. Se la malattia si è sviluppata solo nell’era moderna, è qui che dobbiamo ricercarne il fattore scatenante, non nelle categorie sociologiche e psicologiche. La droga fa la sua comparsa nel salotto buono della modernità tenendosi per mano al misterioso “male oscuro” (fu proprio uno dei padri della cultura moderna, Sigmund Freud, nel saggio del 1885 Sulla cocaina, a presentare questa droga come ottimo farmaco, utile nella cura della depressione). Non è che tutti i tossicodipendenti siano dei depressi conclamati o che tutti i depressi diventino dei tossicodipendenti. Ma è difficile negare che fra i due fenomeni non ci sia una correlazione. Quale? “Fino al nostro secolo – scriveva nel XIX secolo il cattolico Hernest Helloun – l’uomo era stato tiranneggiato da certe determinate passioni… Oggi, gli è sorta intorno una società e una letteratura, che constatano come il turbamento abbia raggiunto le radici stesse dell’anima… Dietro alle passioni conosciute per nome, vediamo risorgere quella passione che non aveva né nome né esistenza nei secoli cristiani, e che i pagani chiamavano tedium vitae. Ora, il disgusto della vita non è altra cosa che un immenso bisogno di Dio». Per quanto l’affermazione possa apparire scandalosa, la droga è un rimedio alla mancanza di Dio. «Nelle discoteche – diceva tempo fa un ex dj a Repubblica – lo sballo e la trasgressione non sono altro che una ricerca di infinito». «Ahimé i vizi dell’uomo – dice Baudelaire in I paradisi artificiali – contengono la prova (non foss’altro per la loro infinita espansione) del suo gusto per l’infinito: soltanto, è un infinito che sbaglia spesso strada… È in questa depravazione del senso dell’infinito che secondo me sta la causa di tutti gli eccessi colpevoli».
La carica del desiderio
Dobbiamo cominciare a spiegare ai ragazzi che vanno in discoteca che lo “sballo” è solo una depravazione del senso dell’Infinito. Ovvero che, dantescamente, «ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo e disira», e che non c’è niente di male nella libertà come ricerca di Infinito, «perché di giugner lui ciascun contende». Il problema è che, in tale ricerca, ci possono essere cose che danno una soddisfazione grande e subitanea (emozioni), ma che poi, siccome non investono la totalità dell’io ma solo un pezzetto (e poi magari pretendono diventare il “tutto”) non mantengono la promessa di farti fare un passo in più verso la piena soddisfazione desiderata. E fanno decadere quel desiderio di felicità insito nell’esperienza elementare (nel cuore e nella ragione) di ogni uomo e di ogni donna, in un mero succedaneo chimico-emozionale. La droga è la via più sicura alla riduzione del desiderio. Cioè la via alla trasformazione degli esseri umani in polli da batteria farmacologica (cioè in esseri alienati nella libertà, razionalità ed energia affettiva, così che, a seconda del padrone-idolo di riferimento, meglio lavorano, ingrassano, obbediscono, consumano, si ribellano). Tant’è che “fumato”, “impasticcato”, “bucato”, puoi star bene per un po’, essere disinibito, toccare il cielo, ma poi capisci che il tuo desiderio non ha avuto risposta, perché felicità non può essere solo un’emozione del sabato sera o una parentesi dentro la vita. Tutto ciò significa che la droga non è un problema di prevenzione, ma di educazione. Di educazione alla libertà. Altrimenti tutta l’informazione e prevenzione di questo mondo, mancando di ragioni adeguate – cioè di attenzione e impegno a “tirar fuori” (educere=educare) i fattori costitutivi dell’esperienza umana impliciti nella libertà che «sbaglia spesso strada» come dice Baudelaire – non arrivano nemmeno a sfiorare il problema. Proibizionismo? Antiproibizionismo? «Come il marito di quella donna (poveretta!): se lo attirava di più la segretaria, perché non doveva andare con la segretaria?».