Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Parigino, di madre tedesca e padre francese. Un europeo. Così si definisce Ralph Alexandre Fassey, presidente del conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. «Mi sento un cittadino europeo che, viste le sue origini, ha trovato nell’Italia il giusto e naturale approdo». Appassionato di musica, intimo amico di grandi compositori della seconda metà del Novecento (famosa l’amicizia con Karlheinz Stockhausen e Pierre Boulez), Fassey si afferma come manager nel campo farmaceutico con una vocazione per la musica. «Sono stato per cinque anni, dal 2007 al 2012, presidente di Milano Musica e da marzo 2016 presidente del primo conservatorio italiano, ho sempre saputo che la musica sarebbe stata la mia strada». Fassey è stato nominato dall’allora ministro all’Istruzione Stefania Giannini, scelto tra una terna che vedeva come possibili candidati anche Philippe Daverio e Achille Mottola. «All’epoca la sterile e inutile querelle sui direttori stranieri non c’era», sottolinea disarmato.
I chiostri barocchi avvolgono il più grande conservatorio italiano, il Giuseppe Verdi, noto nel panorama internazionale per l’eccellenza di docenti e studenti. «Avere l’incarico di presiedere un’istituzione di questo livello è stata un’emozione unica. Una grande commozione e un fortissimo senso di responsabilità mi accompagnano sin dal primo giorno». Un manager, con studi musicali non convenzionali alla guida di un conservatorio, ha sorpreso non poche persone e lasciato perplesse altre. Fassey non è dello stesso parere: «La mia elezione ha chiarito l’intento del ministro: imporre il conservatorio a livello europeo, cercando di farlo crescere non solo dal punto di vista artistico, ma culturale in senso ampio. D’altronde se non ti apri al mondo, muori».
Il conservatorio milanese è un pezzo decisivo di storia della musica italiana. Lunga è la lista degli insigni musicisti che qui hanno studiato, da Giovanni Bottesini ad Alfredo Catalani, da Amilcare Ponchielli a Giacomo Puccini, e nella seconda metà del Novecento non c’è stato grande autore italiano che non abbia insegnato tra le sue mura, tanto da avere dato vita a una vera “scuola milanese” di composizione.
Alla ricerca delle perfezione
Il conservatorio si inserisce in una Milano che sta radicalmente cambiando e anche il rapporto tra conservatorio e città (da sempre molto intimo) vive queste mutazioni. Ne è convinto anche Fassey che precisa: «È una delle mie preoccupazioni da quando mi sono insediato. Il rapporto deve essere assolutamente implementato. Il conservatorio è ancora troppo chiuso in se stesso. Per fare questo bisogna avvicinare l’istituzione ai milanesi non solo come scuola ma come location. Tutta Milano deve sapere che in conservatorio c’è sempre qualcosa, andandoci si può partecipare a eventi musicali di un certo spessore. Le faccio un esempio: la Sala Verdi è aperta solo un giorno o due a settimana. Non è possibile. Aprire alla città significa offrire più eventi ma anche coordinare molto meglio la proposta musicale già presente nella città tutta. La Scala, con la sua stagione, è un “faro” riconosciuto ovunque. Ma c’è anche tanta offerta di ottima qualità sparpagliata, sovrapposta ad altri eventi o a volte ripetitiva. È una grave lacuna perché con le stesse risorse e un coordinamento serio e strutturato l’offerta potrebbe migliorare sensibilmente».
Le risorse, soprattutto con l’intervento dei privati, sono un altro punto sul quale Fassey si sta battendo sin dagli albori del suo mandato. La voce qui si incupisce: «In un anno questo obiettivo non è stato raggiunto. In verità da quando vivo a Milano, circa venticinque anni, ho conosciuto persone colte, amanti della musica e straricche. Nessuna di queste però vuole investire nel conservatorio. Non si tratta di tirchieria. Non sanno giustificare una tale scelta. È una situazione molto triste, anche perché rispecchia, mutatis mutandis, il pressoché nullo interesse della politica per la cultura e la musica. Non si fa nulla per la cultura. I politici in Italia non sono colti, non hanno mai lavorato e si improvvisano politici perché non son capaci di fare altro. Sanno solo chiacchierare».
Eppure Fassey ama l’Italia, la città di Milano e il suo conservatorio. Si emoziona parlando di quello che vuol fare, dove vorrebbe condurre l’istituto che guida. Trova il tempo anche di incrociare gli alunni che popolano la scuola. Lo fa al bar del conservatorio, «punto aggregativo molto forte» dove i primi tempi sedeva senza che nessuno lo riconoscesse. «Mi piace guardare e ascoltare questi ragazzi quasi diciottenni che studiano, fanno sacrifici, certi che la musica sia il mestiere più bello del mondo. Studiano cercando la perfezione. Hanno una fiamma, un entusiasmo che per me rappresenta una ventata d’aria fresca in un mestiere che non permette le mezze misure sia per il musicista sia per il presidente di un conservatorio».
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