Che tu vada a prenderla nelle foreste della Bosnia o la chieda a tuo nonno che viene dal Campidanese, la fotografia della vita è presto fatta: «Quello che dai ti ritorna». Angolo aperto o angolo chiuso, diceva don Luigi Giussani, dalla sanità o tarlo del tuo pregiudizio dipende la felicità o l’infelicità dello stare al mondo.
Il nostro paese soffre da tempo l’ispessimento del pregiudizio negativo. Come diceva un certo tal magistrato – che poi si lamentò del fatto che dalle querele per diffamazione aveva incassato solo quattro soldi (tax free), buoni per comperarsi al massimo un’automobile – «non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti». Come diceva la scuola dei gesuiti Sorge e Pintacuda della sedicente “primavera palermitana” di metà anni Ottanta che sfornò gli Orlando, gli Ingroia e tutta quella schiera di tignosi magistrati lottatori, «la cultura del sospetto è l’anticamera della verità». Come dice il talento di un Beppe Grillo messo al servizio di una irragionevole furia distruttrice. Come dimostra il vecchierel canuto e Fondatore, che col suo mucchietto di ossa pronte per la polvere, si ostina ad allenare il pungiglione dello scorpione.
Infine, come squaderna il tono del discorso pubblico della classe dirigente di un’intera Nazione. Da una parte, così impegnata nell’esercizio dei buoni sentimenti. Dall’altra, così cieca alle risultanze effettuali pressoché nulle delle buone intenzioni, e di tutte quelle liturgie quotidiane che il dio Politicamente Corretto induce in materia di donne, immigrati, omosessuali, pace, primavere arabe, diritti, Berlusconi eccetera.
«Il mondo come Dio l’ha fatto è buono». La nostra amica Hannah Arendt lo scriveva all’amico filosofo Karl Jaspers all’indomani dello sterminio di sei milioni di ebrei. E la nostra amata Ursula Hirschmann lo ricordava a una delle sue otto figliole, e può darsi che sia Barbara Spinelli piuttosto che Renata Colorni, perché delle due è chiaro chi è l’infelice che non ha ancora voluto accettare le ragioni della madre: «Ecco l’atteggiamento che dà fastidio a mia figlia: questo voler comprendere e ricomporre dopo che si è stati offesi e cacciati. (…) Ma noi possiamo soltanto amare. Non per bontà, non per senso religioso, ma perché è l’unico nostro modo di restare nella realtà».
Ecco, se soltanto si infilasse nella testa di ogni membro di classe dirigente questo scrupolo bambino («Ma noi possiamo soltanto amare») al punto da instillarlo poi in ogni ambiente – case, fabbriche, giornali, scuola, università, magistratura, Chiesa – l’Italia cambierebbe tono e direzione tutto d’un colpo. E ricomincerebbe la risalita dal fondo cupo, accidioso e mucchietto d’ossa in cui insiste, e insistendo agonizza.
In fondo, dentro la dura sconfitta e la sua messa al muro giudiziario, Berlusconi ha vinto e passerà alla storia proprio per questo suo istintivo e cristiano pregiudizio positivo che gli rende impossibile odiare qualcuno mentre lui è il più odiato da tutta la povera, micragnosa, disperata classe dirigente italiana. Infatti, non c’è alcun potere che sia superiore alla misericordia, e non c’è nessuna migliore ricetta della infelicità che la buona intenzione unita all’incapacità di perdonare. Questo è lo spirito che dovrebbe accompagnare ogni discussione sull’amnistia sollecitata dal presidente Giorgio Napolitano.