Il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova. (Spe salvi, n. 2)
Marguerite Barankitse è tornata a Milano giusto tre giorni dopo la pubblicazione dell’enciclica di Benedetto XVI sulla speranza cristiana. La Regione Lombardia le ha attribuito, insieme ad altri candidati, il premio annuale “La Lombardia per la pace” per tutto quello che ha fatto e sta facendo per i bambini burundesi vittime della guerra civile: case di accoglienza, ospedali, educazione, cibo e salute, amore. Dopo essere passata attraverso orrori indicibili. Esistesse un premio anche per il binomio fede&speranza, la “folle di Ruyigi”, come la chiamano i suoi connazionali, ne sarebbe la destinataria naturale.
La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future. (Spe salvi, n. 7)
È esattamente quello che è accaduto nella vita di Maggy: le cose del futuro sono entrate nel presente. La pace, il perdono, la riconciliazione, beni escatologici che nel dramma delle guerre tribali africane sembrano davvero beni dell’altro mondo inattingibili prima del giudizio universale, sono diventati esperienza del presente. Per la “sostanza” della fede.
«Mi chiede ancora che rapporto c’è fra la mia fede e quel che faccio?», ride con tonalità profonda. «Gliel’ho già detto, la fede è la conditio sine qua non di quel che faccio, è la prima ragione. Credo che se non fossi cristiana mi sarei già suicidata. Perché correrei in giro per il mondo a mendicare per i bambini, se non fossi convinta che siamo stati creati dall’amore e per amare? Per rendere felici gli altri? È la fede che mi spinge a dire: “Sono una piccola serva di Dio, che io possa compiere il dovere che mi affida”».
Cristo è disceso nell'”inferno” e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. È sorta, tuttavia, la stella della speranza – l’ancora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell’uomo, ma vince la luce: la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode. (Spe salvi, n.37)
«In certi momenti avevo più di 300 bebè sotto i 2 anni, tutti in casa con me», racconta Maggy. «Per 11 anni di seguito ho dormito in camerata con loro. Avevo 8 culle e in ciascuna facevo dormire 4 piccolini. Ogni volta che cercavo di dormire, uno si svegliava e gli dovevo preparare il biberon. Tornavo a dromire e se ne svegliava un altro, e ricominciava daccapo. Immaginatevi: tutta la notte “uaaa!”. Non dormivo, non avevo un segretario, non avevo un contabile, non avevo un’auto. Dovevo fare 40 chilometri a piedi per far curare i bambini malati. Ma c’era una voce interiore che m’impediva di scoraggiarmi. A un certo momento ho perso la voce, a causa delle atrocità che avevo visto ero sotto shock. In un giorno solo ho visto 400 cadaveri. Mi son detta: “Qui mi ritrovo all’inferno!”. Poi gli amici tedeschi che erano venuti ad aiutarmi se ne sono andati perché avevamo ricevuto minacce di morte: l’ambasciata li ha evacuati e io mi sono ritrovata alla casella di partenza, sola e senza aiuti. Questo mi ha aiutato ad essere umile. Mi sono ritirata un mese a pregare in convento e ho preso la mia decisione. Mi dicevano: “Lascia perdere, ti assassineranno, lascia il paese e vieni da noi: ti proteggeremo. Aiuterai il Burundi con una fondazione con la sede in Europa”. Io ho risposto: “No, questo paese è mia madre in agonia, se è necessario morirò insieme a lei”».
Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la “vita”? E che cosa significa veramente “eternità”? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la “vita” vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo “vita”, in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – “la vita beata”, la vita che è semplicemente vita, semplicemente “felicità”. Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta». (Spe salvi, n. 11)
Certo, è difficile non aver paura di morire in un paese dove in dodici anni, fra il 1993 e il 2005, sono state assassinate 200 mila persone. Non solo poveri diavoli, ma capi di Stato, nunzi apostolici, rappresentanti delle Nazioni Unite. «È vero, avevo paura: i primi tempi tremavo. Ma credo che la mia fede cristiana è seguire Cristo fino alla croce, è non voler tradire l’amore di Dio. Io non volevo rinnegare il mio battesimo. Prima di essere tutsi, sono cristiana. E inoltre sono una donna, e la vocazione di una donna è dare la vita, proteggerla e svilupparla. Non volevo rinnegare la mia vocazione umana. In fondo, il valore di una vita non dipende dalla sua durata. Io non volevo morire, nel senso che non volevo diventare come loro. Questa gente che si è messa a uccidere, è morta: l’essere assassini li ha uccisi, perché sono andati contro la vocazione umana, che è di far vivere. Se avessi accettato di fare quello che mi chiedevano, di consegnare loro la chiave della casa dove si rifugiavano le loro vitime, sarei morta anch’io: la mia anima ne avrebbe sofferto. Ho cercato di spiegarglielo, ma non mi stavano a sentire. Tremavo, ma la fede mi sorreggeva: la mia fede in Dio che è onnipotenza d’amore».
Il vero pastore è Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell’ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla. (Spe salvi, n. 6)