Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Il mercato del lavoro tedesco è il migliore d’Europa. Una terra promessa che conta, secondo il dato Eurostat più recente (secondo trimestre 2015), qualcosa come 1 milione 58 mila 772 posti di lavoro vacanti. E ciò spiega perché migliaia, decine di migliaia di profughi e migranti (forse centinaia di migliaia in futuro), si incolonnano in un’epica anabasi che finirà non al grido «Thalassa! Thalassa!» dei compagni di Senofonte, ma con un altrettanto liberatorio «Germany! Germany!».
Bella forza: quali paesi europei possono vantare colossi come Bmw, Bosch, Mercedes, Sap o Siemens? No, il successo della Germania è in realtà la rivincita della sua caparbietà nel restare un’economia manifatturiera altamente regolata e coordinata, mantenendo vive e attuali le sue radici artigianali nella Mittelstand: piccole e medie imprese (spesso possedute da una famiglia) con forti legami con le comunità locali che si specializzano e si innovano producendo prodotti di nicchia di alta qualità. Stabili nei loro legami con le scuole, le banche (cooperative) locali, le grandi imprese, l’apprendistato e la comunità allargata – il loro vero vantaggio concorrenziale.
Ma scusate, questo non vi ricorda qualcosa? Ma questo modello – fatte le debite proporzioni, certo – non è quello che ha caratterizzato la fase più felice dello sviluppo di regioni come la Lombardia, l’Emilia-Romagna e il Veneto? Che quando crescevano di alcuni punti percentuali più della media nazionale venivano irrise dagli stessi vati dell’economia globalizzata che oggi esultano per la crescita dello zero virgola? Non era forse questo l’embrione di federalismo, di reale radicamento e di prossimità delle istituzioni alla società e all’economia, che l’attuale neocentralismo sta sacrificando sull’altare del patto di bilancio europeo? Ma siamo matti? Pensiamo a questo, mentre ci incamminiamo verso la Porta di Brandeburgo – o, tutt’al più, al valico di Brogeda.
Foto Ansa