Il mio precedente articolo ha suscitato alcuni commenti interessanti, poiché riprendono una serie di luoghi comuni che occorre sfatare e perché sono l’occasione per approfondire il discorso iniziato sulla profonda attualità scientifica e morale della Dottrina Sociale della Chiesa, argomentando meglio i meccanismi sul funzionamento attuale della finanza e dell’economia e sulle origini della crisi economica.
Come agisce un buon padre di famiglia
Un errore piuttosto comune, presente anche in alcuni commenti di Giovanna Jacob e di altri, è quello di pensare che, grosso modo, per la gestione del bilancio statale valgano gli stessi principi di gestione del bilancio familiare che devono essere attuati da ogni buon padre di famiglia. Per esempio, se il conto bancario della famiglia diminuisce progressivamente, è perché la somma delle entrate è inferiore alla somma delle uscite (cioè le spese sostenute in quel mese). Quindi la situazione deve essere corretta rinunciando a qualche spesa accessoria o inutile. Vuol dire che il buon padre di famiglia annuncerà ai familiari che occorre rinunciare a qualche uscita al cinema, al ristorante o in discoteca, magari facendo pure attenzione alla spesa al supermercato.
L’idea sbagliata è che questo tipo di analisi e di comportamento dettato dal buon senso sia replicabile anche per la gestione di uno Stato. E quindi, siccome è corretto ritenere che un padre di famiglia che permetta al conto in banca di arrivare a zero senza apportare correttivi, anzi iniziando a fare debiti per non modificare le spese, si possa definire un padre di famiglia quanto meno scriteriato allora allo stesso modo si ritiene che un governo che faccia crescere perennemente il debito sia da definirsi con lo stesso aggettivo. Con l’aggravante, in questo secondo caso, che il governo in questione dovrebbe essere composto da persone esperte, che hanno studiato la materia per una vita e quindi sanno come intervenire. E con l’ulteriore aggravante che quando si governa si decide del bene comune e del futuro di un intero popolo.
Lo Stato si trova in condizioni diverse
Ma cerchiamo di capire bene se nei due casi le condizioni in cui si interviene sono le stesse. Nel caso della famiglia, prima entra lo stipendio mensile e poi lo stesso, nel corso del mese, viene speso. E soprattutto, se interviene la necessità di una spesa straordinaria e non rimandabile (per esempio la rottura di un tubo dell’acqua e la necessità di rifare il bagno) c’è la possibilità di verificare quali spese tagliare fino al prossimo stipendio, avendo la certezza (almeno per chi ha uno stipendio fisso) di ricevere una somma certa alla data prefissata. Quindi due sono le caratteristiche fondamentali della gestione famigliare: primo, prima si incassa e poi si spende; secondo, incasso certo (in quantità) e spese variabili (e comprimibili).
Lo Stato invece si trova in una situazione diametralmente opposta. Lo Stato prima spende e poi (con le tasse dell’anno dopo) incassa; inoltre lo Stato spende in modo incomprimibile, poiché non può tagliare servizi che lo Stato comunque deve dare, mentre le entrate sono incerte e dipendono in maniera significativa dall’andamento dell’economia. Questo pone già un elemento indiscutibile e imprescindibile, se si vuole comprendere l’origine del debito pubblico: lo Stato alla nascita nasce con un debito. Lo Stato, quando ordina ad una azienda un bene od un servizio, deve prima ottenere del denaro emettendo dei titoli di Stato, cioè inizia a indebitarsi. Poi, quando incasserà le tasse (l’anno successivo per le tasse sulle imprese) spera di incassare abbastanza da pagare il debito con gli interessi.
Quindi il debito dello Stato non nasce da una cattiva volontà dei governi ma da una necessità ineluttabile. E la controprova è la realtà che abbiamo sotto gli occhi. Mentre, per fortuna, i casi di padri di famiglia che portano la famiglia sul lastrico sono rare e dolorose eccezioni, la situazione di debito degli Stati è pressoché universale in tutte le epoche e a tutte le latitudini. Tutti gli stati moderni dotati di banca centrale sono indebitati, quasi senza eccezioni.
Le uniche eccezioni di stati non indebitati sono piccoli staterelli dotati di enormi risorse naturali. Normalmente questi stati sono produttori di petrolio e avendo pochi abitanti hanno limitate spese sociali. A parte queste eccezioni, tutti gli stati del mondo, chi più chi meno, sono indebitati. Tra questi, spiccano quelli che hanno subito gravissime crisi finanziarie fino ad arrivare al default, cioè all’impossibilità di pagare i propri titoli di Stato giunti alla scadenza. In tutti questi casi, quei paesi avevano perso la sovranità monetaria, cioè lo Stato non poteva ripagare quei debiti nella moneta corrente perché non aveva una banca centrale come prestatore di ultima istanza, cioè una banca centrale che potesse, in caso di necessità, stampare moneta per pagare i debiti.
Lo Stato e la sovranità monetaria
Questo è il motivo fondamentale della stabilità finanziaria di paesi che hanno un debito elevato, come Singapore, Canada o il sempre citato Giappone. Il debito non è mai un problema se lo Stato rimane in possesso della sovranità monetaria tramite la propria banca centrale. In caso di estrema necessità, si potrà sempre fare ricorso alla banca centrale e stampare la moneta per pagare i debiti contratti nella propria valuta.
Al contrario, se non si possiede la sovranità monetaria anche un debito modesto risulta impagabile. Un esempio clamoroso di questa situazione è l’Argentina, che nel 2001, un anno prima di andare in default, aveva il debito inferiore al 50% del pil. A dispetto del fatto che allora l’Argentina aveva una propria moneta, il peso, questa era di fatto agganciata con un rapporto fisso 1 a 1 con il dollaro americano. Questo impediva alla banca centrale di stampare propria moneta, poiché avrebbe dovuto avere nel proprio forziere una quantità equivalente di dollari.
In mancanza di propria moneta, nel 2002 l’Argentina dovette dichiarare l’impossibilità a pagare i titoli di Stato in scadenza. Questo accadde nonostante negli anni precedenti i governi avevano realizzato massicce privatizzazioni e avevano completamente liberalizzato il mercato. Proprio per queste politiche liberiste l’Argentina aveva ricevuto il plauso del Fondo Monetario Internazionale e veniva portata come esempio virtuoso. Ma le privatizzazioni avevano permesso ad aziende straniere di acquistare le migliori aziende di Stato e i loro profitti da quel momento finivano all’estero. La combinazione delle privatizzazioni e della mancanza di sovranità monetaria aveva portato all’impoverimento del paese, al crollo delle entrate fiscali e al default.
Dopo il default, il governo decise di sospendere il rapporto fisso con il dollaro e riacquistò la sovranità monetaria. Questo portò ad un breve periodo di alta inflazione e il debito arrivò al 160% rispetto al pil (soprattutto per effetto del crollo del pil), ma in breve il pil riprese a correre a ritmi mai visti e il debito argentino non è stato più un problema proprio per la riacquistata sovranità monetaria. Questo permise al pil di crescere in modo straordinario, con percentuali sempre superiori all’8% annuo tra il 2003 ed il 2007. E il maggiore effetto positivo di questa crescita impetuosa avvenne soprattutto nella distribuzione della ricchezza. Infatti nel 2001 il 35% della popolazione era sotto la soglia di povertà mentre l’11% era in condizione di povertà estrema. Nel 2008 invece solo il 15% era sotto la soglia di povertà, mentre appena il 4% era in condizione di povertà estrema. Nel frattempo, grazie alla crescita impetuosa del pil, il rapporto tra debito e pil è tornato sotto il 50% e non desta alcuna preoccupazione. All’epoca del default, molti argentini espatriarono in Spagna. Oggi, anche grazie alla crisi europea che non finisce, molti di questi sono tornati in Argentina.
Perché il debito dello Stato è impagabile
Stabilito che uno Stato parte necessariamente da un debito, come è possibile che tale debito risulti impagabile? In diversi commenti al precedente articolo è stato affermato che il debito è stato generato da spese superiori alle entrate e non dagli interessi. Cerchiamo di capire se questo è vero, nel caso dell’Italia. Infatti potrebbe essere possibile che si parta con un debito ma progressivamente, grazie anche alla crescita economica e alle esportazioni, il debito venga progressivamente ripagato insieme agli interessi. Ovviamente questo non è possibile nel caso in cui si spende più di quanto si incassa: in tal caso il debito continuerà a salire fino a diventare insostenibile. Ma è questo il caso dell’Italia? Davvero per tanti anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, come ci hanno sempre raccontato?
Ebbene, proprio nel 2014 la bilancia commerciale ha avuto un surplus di oltre 42 miliardi di euro, secondo l’Istat. E si è trattato di un bilancio positivo record dal 1993. E allora come mai anche nel 2014 il debito ha continuato a salire? Ovviamente perché vi sono oltre 80 miliardi di euro di interessi da pagare. Questo è il vero fardello impagabile che fa sballare i conti.
Per spiegare questo punto, invito a considerare un esempio piuttosto fantasioso. Immaginiamo che io, 2015 anni fa, abbia prestato a Giuseppe, padre putativo di Gesù, un euro. Immaginiamo pure che mi sia accordato con Giuseppe per un interesse pari al 2% all’anno e che, in caso di mancata restituzione, gli interessi si sarebbero dovuti sommare al debito anno per anno (un classico caso di interesse composto). Così mi sono stampato una moneta da un Euro e l’ho prestata.
Come chiunque può verificare con un programma di foglio di calcolo, il debito dopo 2015 anni è diventato circa pari da un numero composto da 2 seguito da ben 17 zeri! Cioè il debito di Giuseppe nei miei confronti sarebbe oggi pari a centomila volte il debito pubblico dell’Italia. Dopo esserci ripresi dallo spavento della crescita esponenziale del debito, quando non si pagano gli interessi, dobbiamo ragionare su un punto decisivo: io ho prestato un euro, il resto della somma stratosferica (dovrebbero essere 200 quadrilioni di euro, oppure 200 milioni di miliardi di euro) sono interessi che corrispondono a denaro segnato sulla carta ma che nessuno ha mai creato.
Lo stesso accade quando qualcuno va in banca a richiedere un mutuo: se gli viene concesso un finanziamento di centomila euro (per esempio), quel finanziamento dovrà essere ripagato con rate, la cui somma probabilmente si avvicinerà ai duecentomila euro; ma quei centomila euro in più nessuno li ha mai creati. L’unica possibilità per ripagare quel debito è quella di richiedere un nuovo prestito. E questo è quello che accade oggi a tutti gli stati, Italia compresa. Quello che a noi comuni mortali non è concesso (in banca ci riderebbero in faccia) accade invece ogni settimana, quando il Ministero del Tesoro emette nuovi titoli di Stato che possano coprire i precedenti in scadenza più gli interessi, più eventuali altre necessità dello Stato. Questo è il vero motivo per cui il debito pubblico è sempre crescente: perché continuiamo a chiedere moneta per pagare debiti precedenti. E non c’è altro modo, perché la moneta attualmente detenuta serve allo Stato per continuare a spendere oggi, per poi successivamente incassare dalle tasse.
Una politica monetaria criminale contro il lavoro
Questo è il motivo fondamentale per cui la Bce emette di continuo nuova liquidità. Se così non facesse, gli stati fallirebbero da un giorno all’altro, poi toccherebbe all’intero sistema bancario e quindi all’intera economia. Siamo tutti su una giostra che corre sempre più velocemente e non può rallentare. Il disastro totale è solo la logica conseguenza di un sistema impazzito e malfunzionante.
In questo senso, sproloquiare sulla necessità di tagliare i dipendenti pubblici per ripagare il debito è una cosa priva di senso. L’unico effetto sarebbe quello del crollo del pil (come suggerisce la logica e come insegna l’esperienza della Grecia) con conseguente disastroso impatto sulle entrate dello Stato che vedrebbe così annullato il risparmio precedentemente ottenuto. E il debito continuerebbe a crescere.
Per comprendere meglio la politica monetaria criminale della Bce, occorre comprendere il ruolo dell’inflazione sull’economia e sul risparmio in momenti differenti, cioè nei momenti di crescita economica e nei momenti di stagnazione dell’economia. In momenti di robusta crescita economica, questa normalmente è accompagnata da una robusta inflazione che non è un danno, poiché di fatto svaluta il capitale inerte e valorizza il lavoro. Ma per decenni è stata propinata l’idea che l’inflazione fosse il grande male che impoveriva e colpiva la fascia più debole della popolazione: l’inflazione per decenni è stata definita “la tassa occulta”, anche quando, essendo nota a tutti, tutto era tranne che occulta. Ma tale “tassa” era e rimane a carico di chi possiede maggiori risorse finanziarie, mentre è quasi ininfluente per chi ha la propria ricchezza solamente nella propria capacità di lavoro.
Ma c’è un altro aspetto dell’inflazione, poco raccontato, che risulta decisivo per lo sviluppo di un paese. La fascia economicamente più debole di un popolo è quella che più spesso è costretta a ricorrere al debito. Una robusta inflazione contribuisce ad alleviare il peso del debitore e colpisce invece il creditore e tutti coloro che hanno disponibilità finanziaria in eccesso. Quindi l’inflazione ha un benefico effetto redistributore di ricchezza poiché impoverisce chi detiene il capitale finanziario inerte e favorisce chi prende a prestito.
Dopo aver creato lo spauracchio dell’inflazione brutta e cattiva, si arriva all’unione monetaria e alla nascita della Bce che ha un unico compito: quello di tenere l’inflazione sotto controllo, ad un valore prossimo e inferiore al 2%. Questo è il motivo fondamentale per cui tutti i poteri finanziari hanno sostenuto con grande favore l’unione monetaria: con il controllo dell’inflazione si favorisce chi possiede potere finanziario contro quelli la cui ricchezza prevalente è la propria capacità lavorativa. Il risultato oggi lo abbiamo sotto gli occhi: il dominio dei mercati finanziari sopra gli stati (tramite lo spread) e la continua svalorizzazione del lavoro che viene spacciata come efficienza.
Di fatto, una politica monetaria tutta orientata al contenimento dell’inflazione favorisce i detentori di grandi capitali e la finanza e sfavorisce il lavoro che viene visto sempre più come un costo. E soprattutto sfavorisce gli indebitati, cioè le persone appartenenti alla fascia economicamente più debole. E sfavorisce pure i grandi indebitati dei nostri tempi, cioè gli Stati.
La Dottrina Sociale della Chiesa
Anche su questo punto, la Dottrina Sociale della Chiesa è sempre stata chiarissima. Nella lettera enciclica Quadragesimo Anno si afferma che “si dovrà soprattutto avere riguardo del pari alla doppia natura, individuale e sociale propria, tanto del capitale o della proprietà, quanto del lavoro”. Quindi il lavoro ha pure una natura sociale, cioè è un bene comune. Ma lo stesso bisogna dire del capitale, in quanto rappresenta una ricchezza la cui gestione è una responsabilità personale, ma la cui proprietà è dell’intera umanità poiché deriva dal creato, che è dono di Dio all’intera umanità.
Questo è il punto critico di divisione profonda tra la Dottrina Sociale della Chiesa e la dottrina liberista. Per il liberismo, la proprietà privata è un dogma assoluto e il proprietario può disporre dei suoi beni come meglio crede. La dottrina della Chiesa, al contrario, afferma “il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni… La destinazione universale dei beni comporta dei vincoli sul loro uso da parte dei legittimi proprietari. La singola persona non può operare a prescindere dagli effetti dell’uso delle proprie risorse, ma deve agire in modo da perseguire, oltre che il vantaggio personale e familiare, anche il bene comune” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 177-178).
Il fallimento del monetarismo dominante
A questo punto occorre una precisazione, soprattutto in risposta a diversi commenti al mio passato articolo. Ribadisco che le posizioni keynesiane sono quelle uscite sconfitte da Bretton Woods (1944) per ragioni di convenienza politica. Da allora, progressivamente, sono diventate dominanti le idee monetariste propugnate da Friedman e le idee della scuola austriaca di von Mises. Pur con le loro differenze, questi devono essere considerati in totale antitesi con Keynes. Le ideologie liberiste affermatesi politicamente con la Tatcher in Gran Bretagna e con Reagan prima e i due presidenti Bush poi, si sono alimentate col monetarismo e hanno alimentato il monetarismo. Colui che ha guidato la Federal Reserve (la banca centrale Usa) per oltre vent’anni, Alan Greenspan, è considerato un monetarista. Quindi se oggi le idee di Keynes stanno ritornando in auge, questo è dovuto proprio al fallimento dell’ideologia monetarista, reso evidente dall’esplosione della crisi odierna.
La Bce, purtroppo, è stata concepita negli anni 90 e quindi la sua struttura ha risentito profondamente dell’ideologia allora dominante. Una ideologia, quella monetarista, che assegnava e assegna un valore esorbitante alla dinamica dell’offerta di denaro, che di fatto consegna un potere eccessivo a chi gestisce la creazione del denaro. L’idea è che creando denaro, si poteva essere in grado di gestire qualsiasi situazione critica. E il successore di Greenspan alla Fed, Ben Bernanke, è divenuto famoso con il nome di “Helicopter Ben” poiché era arrivato ad affermare che, in caso di necessità, per uscire da una eventuale crisi si doveva dare soldi ai consumatori anche lanciandoli da un elicottero.
Questa è l’ideologia oggi dominante: le banche centrali devono avere un potere enorme, completamente distinto e indipendente dal potere politico. E contro questo potere, già presente negli anni Venti e Trenta del secolo scorso e autori del disastro finanziario conosciuto come Grande Depressione, che si scagliò Papa Pio XI con la Quadragesimo Anno, denunciando “l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi” (n. 105).
Come la Bce sta portando gli stati al fallimento
Questa stessa ideologia è stata dominante nella Bce fin dal suo sorgere. E fin dal suo operare la Bce ha imposto condizioni che potevano solo impoverire l’economia reale e aumentare le diseguaglianze sociali. Infatti, come tutti sanno, per poter restituire il denaro preso a prestito, gli Stati hanno bisogno di un’economia che cresca ad un tasso superiore al tasso del costo del denaro. In tal caso, si potranno pagare almeno gli interessi e magari una piccola parte del debito, rendendo così il costo degli interessi sempre meno pesante. In caso contrario, invece, non sarà possibile ripagare gli interessi (almeno non tutti gli interessi) e quindi il debito diventerà progressivamente sempre più pesante fino a divenire insostenibile.
Occorre però osservare che uno Stato non può decidere di far crescere il pil di un tot. Lo Stato può influenzare positivamente il pil, ma non può determinarlo in modo assoluto. Al contrario, la Bce può determinare in modo totalmente arbitrario e assoluto il costo del denaro. Ed è proprio quello che, purtroppo, ha fatto in questi anni. Qui sotto riporto i dati.
Anno | Pil zona Euro | Tasso Bce |
2001 | 3,39 | 4,75 |
2002 | 1,02 | 3,25 |
2003 | 1,17 | 2,75 |
2004 | 1,16 | 2 |
2005 | 1,79 | 2 |
2006 | 2,14 | 2,25 |
2007 | 3,45 | 3,5 |
2008 | 2,16 | 4 |
2009 | -2,16 | 2,5 |
2010 | -2,32 | 1 |
2011 | 2,18 | 1 |
2012 | 0,67 | 0,75 |
2013 | -0,94 | 0,25 |
2014 | 0,87 | 0,05 |
Nella colonna “Pil zona Euro” è riportata la variazione media del pil dei paesi che hanno l’Euro. Come si vede, la Bce ha operato costantemente per imporre un costo del denaro quasi sempre superiore alla crescita del pil, rendendo di fatto impossibile il pagamento degli interessi e provocando così la costante crescita del debito. E questo è proprio quello che è avvenuto in questi anni.
In una fase di crescita del pil, lo Stato può contenere la crescita del debito aumentando le tasse (e deprimendo la crescita delle imprese e dell’occupazione). Ma quando il pil smette di crescere i nodi vengono al pettine: le aziende iniziano a fallire, la disoccupazione aumenta, aumenta il costo del welfare (cassa integrazione e varie) e diminuiscono le entrate fiscali. In altre parole, il debito dello Stato esplode. E così è accaduto in Europa, dove il debito degli stati che hanno l’Euro è passato dal 65% del 2008 al 92% del 2015.
La politica monetaria della Bce contro l’integrazione europea
Ma c’è un altro effetto perverso della politica monetaria della Bce. Infatti le varie economie nazionali crescono in modo differente l’una dall’altra. Questo spezza di fatto i paesi dell’Euro in due gruppi: quelli che hanno la crescita superiore al tasso di interesse Bce e quelli che invece l’hanno inferiore. I primi riusciranno, seppure a fatica, a contenere o ridurre il debito. I secondi invece vedranno il debito salire inesorabilmente. Questo vuol dire che la moneta unica, con un unico tasso di interesse per tutti i paesi, contribuisce a divaricare le differenze già presenti, rendendo i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più indebitati. Alla faccia dell’integrazione.
Ad ulteriore conferma della politica monetaria criminale attuata vi sono i dati ufficiali sulla stampa delle banconote Euro. Dal 2004 al 2012, il numero di banconote da 5 Euro sono aumentate di circa il 30%. Questo dato è compatibile con una crescita dell’economia un poco superiore al 3% annuo. Vuol dire che la Bce, per dare la possibilità all’economia di crescere il 3% e oltre all’anno, ha aumentato le banconote da 5 Euro di una quantità adeguata. Lo stesso dovrebbe essere per le altre banconote. Ma le cose non stanno così. Le banconote da 500 Euro sono cresciute, sempre dal 2004 al 2012, di circa il 250%. Una cifra spaventosa, soprattutto in considerazione della scarsa utilizzabilità di questo taglio per l’economia reale.
Occorre porsi la domanda: a quale tipo di affari possono essere utili simili tagli di banconote? A pensar male, diceva un politico, si fa peccato; però qualche volta ci si azzecca. E a pensar male, viene in mente che una simile diffusione di banconote sia utile al trasporto in valigetta, per pagare una tangente o per la malavita organizzata: per pagare una partita di stupefacenti o per il traffico di armi.
Come la politica monetaria della Bce favorisce la criminalità organizzata
Certo, pensare che la Bce non ostacoli o favorisca la criminalità organizzata è qualcosa che sembra troppo grossa per essere vera. Ma occorre rimanere sui fatti. E i fatti sono questi che sto per raccontare. Secondo l’agenzia inglese contro il crimine organizzato (SOCA), le banconote da 500 Euro sono quelle preferite per le operazioni di riciclaggio e per i traffici illeciti. La notizia è del marzo 2010. Dopo tale informativa, la Bank of England (la banca centrale inglese) istruisce le banche inglesi affinché da quel momento si rifiutino di cambiare le banconote da 500 Euro. Poco dopo, una informativa interna della Banca d’Italia esprime la preoccupazione dei funzionari dell’istituto relativa all’alta diffusione delle banconote da 500 Euro.
Il 27 maggio dello stesso anno, il parlamentare europeo Charles Tannock presenta una interrogazione parlamentare scritta, con la seguente domanda: “Può la commissione esporre i motivi per cui la BCE, nonostante le precedenti richieste, continua ad emettere quantità significative di banconote da 500 euro, considerando che non vi è dubbio che l’UE dovrebbe essere di esempio a livello globale nella lotta alla criminalità organizzata, il terrorismo, il riciclaggio di denaro e l’evasione fiscale, provvedendo al ritiro di tali banconote dalla circolazione?”. Il 14 luglio del 2010, arriva la risposta scritta del commissario europeo per gli affari monetari Olli Rehn: “Banknotes are the esclusive competence of the European Central Bank (ECB)”. Traduzione: fatevi gli affari vostri.
Quello che è certo, è che nessun altro sistema monetario, per evitare di favorire la malavita organizzata, ha adottato tagli di banconote con valori così alti: per le Sterline britanniche il valore più alto è pari a 50; per il dollaro statunitense il valore più alto è pari a 100; per il dollaro canadese è pari a 100 (c’erano le banconote da 1000, ma sono state ritirare dalla circolazione e possono solo essere portate in banca); per lo Yen giapponese è pari a 10mila (circa 73 euro in questi giorni).
Più Europa per continuare sulla strada sbagliata
Tutto questo accade nella totale impotenza delle istituzioni politiche. Infatti l’architettura monetaria che è stata scelta con questa costruzione europea è quella che risponde ad una precisa ideologia (chiamata liberismo in campo politico e monetarismo in quello economico) che si fonda precisamente sulla totale separazione tra banca centrale e potere politico; una separazione tanto radicale (e antidemocratica) da impedire alla politica anche la più flebile influenza e il più tenue controllo sulla politica monetaria attuata.
Tale dogma non detto è così profondamente radicato che il processo di adesione all’Euro dell’Ungheria ha subito un brusco arresto da quando il governo del premier Orban ha di fatto posto sotto tutela governativa la banca centrale ungherese. Il risultato, in un paese privo di significative risorse naturali, è sotto gli occhi di tutti: crescita del pil intorno al 3% e disoccupazione in continua discesa, oggi di poco inferiore al 7%. Tutto questo ottenuto anche imponendo una flat tax al 16%.
Il vero obiettivo della perdita di sovranità monetaria è la perdita delle altre sovranità, tramite le quali aziende straniere potranno fare man bassa delle nostre aziende produttive e ridurci allo stato di consumatori privi di cittadinanza effettiva. Come sta accadendo in Grecia, dove sono stati acquistati i principali aeroporti (con una concessione di 40 anni, la notizia si può leggere anche qui). Ma l’azienda acquirente, la tedesca Fraport, è di maggioranza del comune di Francoforte. Questo vuol dire che i greci pagheranno anche i servizi sociali dei tedeschi. Ma in Grecia non vi saranno i soldi per gli stessi servizi, perché sono finiti in Germania.
Quindi la progressiva perdita di sovranità contribuisce ad arricchire i ricchi e impoverire i poveri.
Sovranità e Dottrina della Chiesa
Ma cosa dice la Dottrina Sociale della Chiesa sulla sovranità? Cosa dice sui diritti dei popoli e delle nazioni?
“La Nazione ha un fondamentale diritto all’esistenza; alla propria lingua e cultura, mediante le quali un popolo esprime e promuove la sua sovranità spirituale…” (Compendio, n. 157).
“La sovranità appartiene a Dio. Il Signore, tuttavia, non ha voluto riservare solo a sé l’esercizio di tutti i poteri. Egli assegna ad ogni creatura le funzioni che essa è in grado di esercitare…” (Compendio, n. 383).
“Il soggetto dell’autorità politica è il popolo, considerato nella sua totalità quale detentore della sovranità. Il popolo, in varie forme, trasferisce l’esercizio della sua sovranità a coloro che liberamente elegge suoi rappresentanti…” (Compendio, n. 395).
Il popolo dunque può trasferire l’esercizio della sovranità alla politica. Non trasferisce la proprietà della sovranità. Quindi la politica non può avere il diritto di trasferire la proprietà della sovranità, che non gli appartiene.
“Il Magistero riconosce l’importanza della sovranità nazionale, concepita anzitutto come espressione della libertà che deve regolare i rapporti tra gli Stati. La sovranità rappresenta la soggettività di una Nazione sotto il profilo politico, economico, sociale e anche culturale. La dimensione culturale acquista uno spessore particolare come punto di forza per la resistenza agli atti di aggressione o alle forme di dominio che condizionano la libertà di un Paese: la cultura costituisce la garanzia di conservazione dell’identità di un popolo, esprime e promuove la sua sovranità spirituale” (Compendio, n. 435).
Mi sembra molto chiaro, non c’è bisogno di altri commenti. Ma vi sono casi in cui si può accettare una limitazione della sovranità nazionale?
“La sovranità nazionale non è però un assoluto. Le Nazioni possono rinunciare liberamente all’esercizio di alcuni loro diritti in vista di un obiettivo comune, nella consapevolezza di formare una « famiglia », dove devono regnare reciproca fiducia, sostegno vicendevole e mutuo rispetto. In tale prospettiva, merita attenta considerazione la mancanza di un accordo internazionale che affronti in modo adeguato « i diritti delle Nazioni », la cui preparazione potrebbe affrontare opportunamente le questioni relative alla giustizia e alla libertà nel mondo contemporaneo” (Compendio, n. 435).
Questo vuoto giuridico, cioè la mancanza di un diritto delle Nazioni, ha permesso l’abuso attuale con l’adesione ad accordi che di fatto hanno portato alla perdita di sovranità nazionale, senza che questa sia mai stata discussa o democraticamente votata. E questo anche in violazione del diritto costituzionale, il quale (per l’Italia, ma lo stesso discorso vale anche per la Grecia) avrebbe dovuto impedire l’adesione a questi accordi (da Maastricht in poi), poiché in nessun articolo della Costituzione Italiana è prevista la cessione di sovranità. Solo l’articolo 11 prevede una limitazione della sovranità, ma solo in condizioni di parità con altre nazioni. E in questo caso la parità non esiste, è una trappola: non si può dare la stessa quantità di moneta alla popolazione di Berlino e alla popolazione di Roma (o Atene) così come non si può dare la stessa quantità di acqua da bere a chi deve attraversare un bosco e a chi deve attraversare un deserto.
Non abbiamo bisogno di immaginarci come finisce, lo stiamo vedendo in Grecia. E il popolo greco sta soffrendo sulla propria pelle l’applicazione ottusa di questa parità.
Ed ora? Cosa fare?
Come affermava Vittadini qualche tempo fa, occorre ripartire dal basso. Un tema che viene ripetuto: il 21 agosto al Meeting di Rimini vi sarà un incontro proprio con questo titolo.
Come disse il filosofo MacIntyre, paragonando la nostra epoca a quella della caduta dell’impero romano: “Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi” (“Dopo la virtù”, Armando Editore, pag. 314).
E come sostenere economicamente queste comunità locali? Con sistemi di Moneta Complementare, come già stanno facendo in tante parti del mondo. E tenendo ben presente il principio di gratuità enunciato da Papa Benedetto XVI: “lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità” (Caritas in Veritate, n. 34).
Un argomento da approfondire. Magari in un prossimo articolo.
Foto Ansa