Antonio Silvio Calò, docente di filosofia e storia al liceo di Treviso, lo sottolinea pacatamente: «Non sto facendo nulla di particolare. È normale». In realtà, qualcosa di eccezionale c’è, dal momento che in Veneto non sono molte le persone che come Calò e la sua famiglia («numerosa» come dice con orgoglio, «abbiamo sei figli») aprono le porte della propria casa ai migranti che il ministero dell’Interno sta cercando di smistare nelle regioni del Nord. Racconta Calò: «Mi sono messo a disposizione della prefettura di Treviso. Con mia moglie avevamo pensato di dare ospitalità alle donne, magari quelle vittime di violenze. Poi è arrivata la telefonata della prefettura che ci ha spiegato che avevano urgenza di trovare una sistemazione dignitosa per il maggior numero possibile di persone, anche uomini. Abbiamo detto di sì. E da tre giorni viviamo come in una grande famiglia nella nostra casa di Ponegliano, con sei ragazzi, tra i 19 e i 30 anni, provenienti da Gambia, Ghana e Nigeria».
UNA CERTA IDEA DI FAMIGLIA. Cattolici, i Calò hanno già vissuto esperienze simili. «La nostra parrocchia il mese scorso ha accolto 30 ragazzi. Mia moglie si era molto affezionata, tanto che la chiamavano “Mamma Gambia”. Così al prefetto abbiamo chiesto di fare uno “scambio”, cioè di ospitare nella nostra casa sei dei ragazzi africani conosciuti in parrocchia in questi giorni, lasciando sei posti liberi ai nuovi. Abbiamo liberato per i nostri nuovi ospiti la taverna, dove dormono. A colazione, a pranzo e a cena mangiamo insieme, proviamo a parlarci». Perché lo fa? «Ho avuto tanto dalla vita, e mi è stato insegnato dai miei genitori che chi ha avuto tanto, deve dare tanto. Cosa c’è più bello del condividere? È un’esperienza indicibile».
La scelta dei Calò è maturata dopo l’ultima strage in mare a maggio, nella quale erano morte 800 persone. «Per un credente come me, la cosa più importante sono le azioni e non le parole. Per un cittadino, secondo me, l’importante non è accusare lo Stato, ma sentirsi Stato e dare la risposta che si può dare. Io ho agito da cittadino e da cattolico. Ai nostri ospiti ho spiegato che se loro sono in casa nostra è perché ho una certa idea di famiglia, e devo molto sia a quella mia d’origine sia a mia moglie, una donna incantevole. Mio padre era un medico. Ha sempre curato tutti, anche i disgraziati che non potevano pagarlo, e magari gli regalavano un pollo o il salame, e io sono cresciuto avendo davanti questo suo esempio. Ho in mente anche mia madre, che teneva sempre aperta la porta di casa e la tavola apparecchiata per chiunque venisse. Per me la famiglia è questo, ed è questo che voglio insegnare ai miei figli, attraverso dei fatti».
LE LORO STORIE. Calò confessa di essere ancora profondamente toccato dalle risposte avute dai suoi ospiti: «Il più giovane di questi ragazzi, dopo che mi avevano ascoltato con attenzione, mi ha detto: “Io non ho più nessuno. Tu sei mio padre”. Non è semplice, mi commuovo al solo pensiero di queste sue parole. E un altro dei ragazzi mi ha detto che ha perso suo fratello mentre viaggiavano sul barcone. Non aveva conosciuto la madre, e la sua famiglia era solo suo fratello. Si tenevano per mano mentre erano in acqua e nuotavano per essere salvati, ma ad un certo punto la mano dell’altro gli è scivolata via e lo ha perduto. Altri due ragazzi ci hanno detto che sono sposati, e che sono scappati perché volevano costruire al sicuro la loro nuova famiglia. È un’umanità ferita ed è impensabile non cercare di rispondere a queste persone. Se vorranno partire verso il Nord europa, io li aiuterò. Altrimenti faremo un percorso, per l’apprendimento della lingua, per essere in regola con i documenti e per trovare un lavoro. Ho già parlato con il sindaco di Ponegliano».
LE SPESE E I RIMBORSI. Qualcuno in paese, confessa Calò, lo ha accusato di voler intascare i fondi destinati ai migranti. Lui non se ne cura: «Per ogni ragazzo lo Stato mi dà 30 euro al giorno, ma il pagamento avverrà tra tre mesi. La prefettura dà l’assenso alle famiglie solo se, come la mia, sono affiliate ad enti come la Caritas o le cooperative sociali. Noi siamo affiliati al circolo fondato qui in paese da un marocchino, che considero mio “fratello” spirituale. È la sua cooperativa che materialmente sta anticipando le spese per noi. A Ponegliano c’è una famiglia in grave difficoltà. La madre è rimasta senza lavoro, ed è una volontaria che in parrocchia già lavorava con i migranti. Noi avevamo bisogno che ci affiancasse qualcuno che avesse un po’ di esperienza, quindi buona parte dei soldi che riceveremo, 1.300 sui 3.600 al mese, li useremo per pagare un lavoro a questa persona del paese. Altri 800 euro vanno in alimenti, e un’altra fetta importante delle risorse va in spese sanitarie, che sono la voce più importante. Ad ogni ragazzo, come prevede la legge, do 2.50 euro di paghetta, più 15 euro di scheda telefonica al bisogno. Infine, 400 euro al mese li terremo per le bollette di luce, acqua e gas. Riassumendo, il professor Calò non ci guadagna un euro. Basta fare i conti. Ma d’altra parte non ho mai pensato di farlo per soldi».
«SOLIDARIETA’ DAI LEGHISTI». Ponegliano è un piccolo paese a maggioranza leghista. «In questi due giorni ho ricevuto centinaia di messaggi di persone vicine e lontane, che mi danno una carica enorme. Molte persone del paese stanno venendo a casa nostra e ci portano dei doni: chi porta lenzuola, chi offre abiti. Gli amici di mio figlio vengono a trovarle i ragazzi e a chiacchierare con loro. Certo, ci sono anche quelli che hanno brontolato. Ma li rispetto e sono molti di più quelli che, anche tra i leghisti, mi hanno dimostrato solidarietà. Vorrei invitare il governatore Zaia a casa nostra, perché sono sicuro che di persona si renderebbe conto subito che una soluzione si può trovare. Ci sono persone che hanno polemizzato con la mia decisione, ma non me la prendo. Rispondo con la testimonianza. Il Vangelo dice “venite e vedete”: lo dico anche io. Perciò di che cosa debbo avere paura?».
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