C’è spazio perché l’8 marzo non si parli solo di percentuali prefissate di partecipazione delle donne ai consigli di amministrazione, o di precedenze nelle liste elettorali o nelle giunte degli enti locali? Sì, se si coglie la ricorrenza per non ripetere in modo stanco un “rito” che si è avvitato su se stesso, e se si smette di ignorare quel che oggi realmente mortifica e calpesta la dignità della donna. Se, cioè, si esce dai palazzi e dai circuiti di un veterofemminismo diventato patetico e si guarda a ciò che accade a poche centinaia di chilometri da noi.
Per esesempio, se si aprono le finestre sui territori nei quali domina l’ultrafondamentalismo islamico e ci si rende conto che prima dei cda e dell’elettorato passivo vi è un vivere quotidiano fatto di violenza, di umiliazione, di impossibilità di scegliere il proprio futuro, talora di schiavitù di fatto che rende veramente arduo discettare di collocazione nelle liste. E ciò non necessariamente in contesti dominati dallo Stato islamico, ma con maggiore estensione territoriale in Stati con i quali l’Italia intrattiene ottime relazioni diplomatiche e commerciali, e dai quali non disdegna di ricevere cospicue risorse per importanti insediamenti urbani o per altrettanto significative partnership finanziarie.
I fautori dell’8 marzo non hanno nulla da obiettare? Ed è proprio indispensabile uscire dai confini nazionali? Non interessa la sorte delle giovani madri che riescono ad arrivare da noi dopo viaggi terribili, in fuga da persecuzioni dirette o da guerre, avendo visto la morte in faccia? Non dovremmo preoccuparci che l’“opportunità” di una vita tranquilla per loro e per i loro figli, spesso di tenerissima età, sia resa “pari” nei fatti e non nelle parole (peraltro pure quelle rare ad ascoltarsi)? Sempre per restare a casa nostra, quali “opportunità” sono garantite alle donne, italiane e non, che hanno serie difficoltà a proseguire e portare a compimento una gravidanza, e si scontrano col cinismo di un sistema che risponde in automatico col rilascio del certificato per abortire (nonostante una legge ipocrita e disapplicata imponga di individuare concrete alternative che facciano nascere il bambino)? Per non parlare delle mortificazioni e dei danni fisici e psicologici che provocano le tecniche introdotte col pretesto della liberazione della donna, in primis la pillola abortiva e la fecondazione in vitro: guai solo ad accennarne!
Meno ideologia, più realtà
Ecco, se si volesse dare un senso a una festa dalle origini dubbie – a suo tempo Vittorio Messori ha documentato il falso storico sul quale si fonda la fissazione della data – e dai contenuti così distanti dalla realtà, ci sarebbe l’imbarazzo della scelta. Né costituirebbe danno far emergere il percorso a ostacoli costituito, più di quanto non lo fosse nel passato, dalla vita quotidiana in una famiglia con bambini, con lo sforzo di conciliare lavoro e cura dei figli. De-ideologizzare l’8 marzo e agganciarlo alla realtà può trasformare questa scadenza in qualcosa di interessante. Ci proviamo?