Parlar male uguale parlar malattia. Ne danno cattivo esempio i grandi: il mondo è intrattenuto sull’alzheimer di Reagan, sul bollettino medico-alcolico di Eltsin; in un recente passato sapevamo tutto sull’agonia di Sartre dalla sua compagna Simone De Beauvoir. Questo uniformismo ugualitario della malattia ha persino un’aria virtuosa (modestia, accettazione del destino), se non un’aria religiosa di implicita preghiera nell’esibire limiti che alluderebbero a un aldilà sperabile. A scuola eravamo più onesti perché non teorizzavamo ancora la malattia: ne accampavamo una per evitare un’interrogazione cui non eravamo preparati, ossia che venissimo imputati circa la nostra preparazione. Ma il parlar malattia – proprio come si dice “parlar italiano”, ma distorcendo l’italiano a funzione del discorso di malattia – è un parlar Teoria: la teoria che in dolore veritas, e che la verità, e anche la realtà, è incontrata nella malattia e nel dolore, e allora tutti nella stessa barca! Il sepolcro è imbiancato con il materiale che contiene. Masochismo, melanconia, vita come sopravvivenza. Ma la verità è adeguatezza del giudizio all’atto, è imputativa, e l’imputazione conosce e rispetta la realtà dell’atto. L’imputazione non è condanna né rigore: è salvezza.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi