Come le sembra l’idea di utilizzare tutta l’area metropolitana per dare rifugio ai migranti?
Quest’idea era già contenuta nel programma con cui Stefano Parisi si è presentato alle elezioni, perciò non mi sembra nulla di nuovo, anche se il neo sindaco l’ha arrangiata in questi ultimi giorni, per far fronte all’emergenza cittadina. Mi sembra molto più ragionevole comunque gestire la situazione profughi tutti insieme, con la collaborazione reciproca dei Comuni, piuttosto che lasciare solo a Milano l’onere di gestire il problema.
I centri cittadini sono al collasso, anche associazioni caritatevoli come i City Angels hanno raccontato di non riuscire più a gestire la situazione. Il ricollocamento dei profughi nell’area Expo le sembra una buona alternativa?
Francamente no, anzi, addirittura controproducente. Non per i profughi in sé, ma come biglietto da visita per la città. In questo periodo si sta cercando di attrarre nuovi investitori a Milano, anche come risposta al dopo Brexit. È il momento di dare un nuovo destino all’area Expo, sfruttando il flusso di investitori in fuga dalla Gran Bretagna, ai quali credo non piacerebbe questa nuova vocazione dell’area.
Il bivacco di fronte alla Stazione Centrale è diventato il simbolo del degrado cittadino. Attraversando a piedi la piazza, il passante si chiede come i profughi possano occupare il tempo durante la giornata.
È una domanda giusta, credo che l’unica soluzione possibile possa essere quella di impiegarli in lavori socialmente utili, una proposta di cui si è parlato più volte ma che non è mai stata attuata a Milano. Innanzitutto c’è un problema numerico, i profughi sono tanti ed è difficile dare un impiego a tutti. Poi c’è un problema salariale-contrattuale, mi chiedo in che forma dovrebbero essere retribuiti. Un buon esempio potrebbe essere quello della Germania, che ha apportato una piccola modifica legislativa proponendo agli immigrati di essere “pagati” in progetti di integrazione culturale, corsi di lingua e quant’altro. Ci deve essere comunque una forte presa di posizione da parte dell’amministrazione, che per il momento non si vede.
Qual è la vostra idea di integrazione a Milano? Come volete affrontare il tema delle moschee? Il progetto della precedente amministrazione è stato annullato, ora è tutto da rifare.
Proprio per questo abbiamo deciso di lanciare le nostre idee ora, per spianare la strada ai ragionamenti in attesa delle nuove discussioni in consiglio comunale sulle moschee. Ora è il momento buono per gettare le basi, per promuovere percorsi civici. Visto che è imminente, anche in Italia, il riconoscimento giuridico delle figure degli imam, ci sembra interessante proporre alle personalità islamiche milanesi dei percorsi di educazione civica, di approfondimento della legge italiana, soprattutto sul tema del matrimonio. Lo scopo è impedire forzature che non appartengono alla nostra cultura, come la poligamia o il ripudio, e quindi difendere donne e bambini. Al tempo stesso vorremmo proporre un’unità specializzata contro la radicalizzazione, come già fatto in Gran Bretagna, Olanda e Danimarca, in grado di controllare il territorio. Avvicinando in particolare gli immigrati di seconda generazione, i più a rischio dall’essere affascinati da ideali terroristici, come si vede dai recenti attentati sanguinosi. Se a livello nazionale è difficile tenere sotto controllo il fenomeno, può essere invece più percorribile la strada locale. Una rete di psicologi, mediatori culturali e agenti di polizia potrebbe essere in grado di intravedere in anticipo il pericolo e agire di conseguenza.
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