Anticipiamo un articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Mi affido a Dio». Questa frase di Silvio Berlusconi, proprio sua, non mediata da nessuno, ha spezzato la politica in due. Quelli che improvvisamente avvistano come un baluginio nelle convulse lotte per affermare le proprie ambizioni mescolate con ideali e interessi, e si fermano per un attimo, e si siedono a pensare. E quelli che se ne fregano e tirano diritto, al massimo fanno calcoli sull’a-chi-giova la malattia del leader di Forza Italia e/o quanto pesa sull’esito del voto per il ballottaggio.
È impressionante notare come il rasoio della morte («ha rischiato di morire», ha detto il suo medico personale Alberto Zangrillo) abbia diviso il campo fregandosene delle divisioni politiche. Non abbiamo assistito per fortuna a qualcosa di simile al salto sul carro funebre del vincitore come nel caso della dipartita di Marco Pannella, preparata nei mesi e nelle settimane precedenti dalle visite di conforto non al malato ma a se stessi di parecchi personaggi di tutti i calibri e le tendenze, che hanno venduto la quinta opera di misericordia corporale (catechismo di San Pio X «visitare gli infermi») alla propria propaganda.
Invece è come se avesse attraversato il popolo italiano un gran vento fresco e purificatore. Un buon vento, nonostante la circostanza preoccupante. Ha fatto riscoprire il vero senso della “pietas”, come qualcosa che non è confinato nell’orto del sentimento, ma è strutturale del senso della vita e anche della politica, perché la politica è la dimensione della vita comune degli uomini.
La “pietas” non è un dolcificante
È un buon vento, che ha fatto guardare oltre l’effimero. Ma è un buon vento ed è anche il rasoio di cui sopra. Gli stupidi credono sia una bonacciona che versa cucchiaiate di miele nell’acida lotta per il potere, così da mascherarne l’asprezza e renderla potabile alle brave persone. Balle. Boris è arci-convinto piuttosto che la “pietas” non sia affatto un dolcificante, ma sia la chiave della verità e della felicità. E perciò sia la spada che squarcia le budella degli ipocriti e dei cinici, che siamo in realtà tutti noi quando dimentichiamo che cos’è l’uomo, chi siamo noi nati da donna. Attualizza il monito evangelico di Gesù: «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Matteo 16).
Non bisogna buttare via quello che è accaduto e sta accadendo intorno all’ospedale san Raffaele, e che rimbalza nei discorsi al caffè o sul tram o nelle case. In realtà lo sappiamo tutti molto bene cosa pesa davvero. E invece la politica normalmente ne sta fuori, attinge ad altre questioni, a emergenze diverse da quelle sul significato della vita.
Lo spazio della coscienza
Un po’ è giusto, perché non sta nella politica la risposta al desiderio infinito che caratterizza la nostra umanità quando non è stata narcotizzata. Quando la politica pretende di essere questo porto finale dove tutti saranno felici, si è al totalitarismo, alla macchina del bene anonimo che sostituisce la libertà, ed è un guaio serio. Ma la politica è qualcosa di buono e bello proprio quando è combattuta per aprire spazi a quello che non è politica ma è più profondo, davanti a cui la politica si ritrae, non ci mette sopra le mani per impossessarsene, ed è la coscienza.
Poi per la politica si può, anzi qualche volta si deve dare la vita, ci si può sacrificare fino all’estremo. Persino vale la pena correre il rischio di morire per lo stress o la persecuzione (come Boris è convinto sia il caso di Berlusconi), non per il potere, ma per difendere dal potere gli altri, la loro libertà. Lo diceva Pavese che «da uno che non è disposto a dare la vita per te non dovresti accettare neanche una sigaretta». Ma per imparare questa arte bisogna affidarsi a Dio, anche quando non c’è bisogno di farlo sapere in pubblico.
Foto Ansa