Un mese dopo la storia di Li Fengfei, donna cinese incinta costretta ad abortire in seguito alla somministrazione di un mix di farmaci, ecco una nuova triste storia, frutto della politica del figlio unico. Il fatto è avvenuto nel 2011, ma è stato raccontato dai giornali cinesi solo ora.
Zeng Lili, della provincia di Guangdong, è stata costretta a subire un aborto al nono mese, dopo che il bambino è nato vivo ed è sopravvissuto qualche momento tra le sue braccia, e poi è stato lasciato morire. Una storia terribile, avvenuta dopo che a Zeng Li e a suo marito è stato notificato il telegramma dell’ufficio pianificazione famigliare.
AL MACELLO. Reggie Littlejohn, attivista del “Women’s Rights Without Frontiers”, si è subito messa in contatto con Zeng Lili, dopo aver letto la sua vicenda su un giornale cinese. La donna le ha detto di essersi sentita «come un maiale al macello». La colpa è stata del suo, ormai, ex marito, precedentemente sposato e già padre. Quindi quando Zeng Lili è rimasta incinta, questo figlio concepito da una seconda unione, è stato ritenuto «secondo figlio».
COLPA DEL MARITO. Così l’ufficio pianificazione famigliare ha contattato l’uomo per farsi rendere conto della contravvenzione alla politica del figlio unico, e questi, pur di non pagare la salatissima multa, ha consegnato la futura madre di suo figlio ai carnefici. La donna ha raccontato a Reggie Littlejohn di avere già tentato il suicidio tre volte. L’attivista ha scritto sul suo sito: «I nostri cuori si devono spezzare per la signora Zeng, che ha subito un aborto al nono mese, e il cui bambino le è morto tra le braccia. La sua esperienza mette in luce la drammatica connessione tra aborto forzato e tasso altissimo, in Cina, di suicidi femminili. Oltre 590 donne al giorno si tolgono la vita».