Carlo Viara è bresciano e ha 52 anni. Di mestiere fa il preside. Il suo problema è che deve guidare 18 scuole per mancanza di dirigenti. Sperava che la sua situazione sarebbe migliorata quest’anno, grazie al concorso statale che avrebbe assunto 355 nuovi presidi in Lombardia. E invece niente, perché alcuni partecipanti al concorso, dopo aver saputo che erano stati bocciati, hanno fatto ricorso al Tar. Motivo? Le buste, acquistate dalla Lombardia attraverso Consip, la piattaforma ufficiale per gli acquisti della pubblica amministrazione, erano troppo sottili e non garantivano il perfetto anonimato. Il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar annullando il concorso. Il risultato è che una scuola su due in Lombardia rimane senza preside, 355 persone non vengono assunte, Carlo dovrà continuare a farsi in 18 e quelle persone che hanno vinto il concorso perché se lo meritano restano con un palmo di naso.
RICORSI. Un ricorso fatto da chi è stato escluso ha mandato in fumo il lavoro di tutti, sia di quelli che hanno vinto, sia di quelli che hanno perso. Non è l’unico caso. Tantissimi studenti che vengono bocciati all’esame di maturità, oggi, scelgono di fare ricorso al Tar della propria regione, ritenendo di subire ingiustizie da parte degli insegnanti. Il sito studenti.it, invece di consigliare loro di studiare di più e meglio, spiega addirittura come fare: basta spendere 2.500 euro circa, assoldare un avvocato esperto e presentare le prove. Il verdetto arriverà dopo qualche anno, quindi sarà in ogni caso inutile. Che cosa dire del Tfa? Molte persone che hanno passato la prima prova d’accesso al tirocinio che abilita all’insegnamento si sono ritrovate superate da altre che, non avendo passato la prova in prima istanza, hanno ben pensato di fare ricorso e sono così riusciti a farsi convalidare da un ministero molto sollecito nel calare le braghe risposte errate. In questo modo, tanti hanno addirittura superato chi all’inizio aveva risposto meglio di loro. Perfino alle ultime Olimpiadi, nella gara a squadre maschile di ginnastica artistica, l’atleta giapponese Kōhei Uchimura ha fatto ricorso ritenendo ingiusta la valutazione di un suo esercizio (completato con un evidente errore in uscita) da parte dei giudici. Il Giappone, fuori dal podio, grazie al ricorso, è arrivato secondo e si è aggiudicato l’argento.
PERDERE. Premesso che a volte si possono avere delle buone ragioni per fare ricorso, premesso che alcune domande (ma non tutte) del Tfa erano sbagliate, premesso che può succedere che i professori si accaniscano su uno studente e premesso che un giudice delle Olimpiadi può sbagliare una valutazione, c’è un evidente problema: oggi il ricorso è diventato una moda. Non perché il mondo sia più ingiusto, la valutazione meno trasparente e i concorsi più loschi di una volta, ma perché noi non sappiamo più accettare un verdetto, un giudizio, un fatto.
E LA MERITOCRAZIA? Alla sola idea che un nostro più che legittimo progetto, come ad esempio insegnare, non si realizzi perché qualcun altro ha risposto meglio di noi alle domande di un test andiamo su tutte le furie. Se la realtà contraddice le nostre aspettative, ci rifiutiamo di accettarla e quindi procediamo per vie legali. Se non riusciamo a realizzare qualcosa è sempre per colpa di qualcun altro, che so, il ministero stupido, il professore cattivo, il giudice cieco, le buste troppo piccole. Eppure altri ce la fanno lo stesso. Prima che i concorsi vengano annullati da strombazzanti ricorsi conditi da class action, ci sono sempre delle persone che si vedono strappare da sotto al naso un successo raggiunto. Un concorso è crudele: alcuni ce la fanno, altri no, alcuni sono più bravi, altri meno, alcuni sono fortunati, altri sfigati. È sempre stato così ma anche questo non possiamo più accettarlo, perché oggi tutti hanno diritto ad essere i più bravi.
VIETATO IMPARARE. Qual è la conseguenza di questo atteggiamento? Che non impariamo più niente, non siamo più spronati a migliorare, a fare di più, all’autocritica, o magari anche a rivedere i nostri progetti, considerare nuove strade, prendere seriamente le indicazioni che vengono dalla realtà. Noi no. Con un bel ricorsino, la realtà la cambiamo, perché è lei che deve obbedire alle nostre aspirazioni. Una volta si diceva: chiusa una porta, si apre un portone. Sembra banale, ma è l’espressione profonda di una certa concezione della realtà: le cose hanno un senso. Oggi invece quella porta chiusa la sfondiamo con qualche chiletto di carta bollata e il senso glielo diamo noi con un bel timbro di uno studio di avvocati. Ma così, è l’inquietante conseguenza, non entriamo più nel portone.