Quanto costa ristrutturare la sanità italiana? Le vicende dell’Umberto I di Roma, il più grande policlinico italiano nel quale si scopre che, nell’incuria generale, 14 neonati possono rimanere colpiti da enterite necrotizzante, rappresentano solo l’aspetto emergenziale dello sfascio in cui in Italia versano moltissime strutture sanitarie e che, con cadenza quasi settimanale, non manca di manifestarsi con drammatici riflessi di cronaca. D’altra parte, la stessa riforma Bindi, il cui obiettivo dovrebbe essere quello di ridisegnare l’intero sistema sanitario secondo modelli di efficienza europei deve fare i conti con la cronica penuria di fondi e con un deficit pubblico che richiede continui tagli. Basta pensare al progetto di permettere la libera professione all’interno delle strutture pubbliche per immaginare l’onere degli investimenti necessari a rendere almeno qualche ala di un Cardarelli di Napoli o, appunto, di un Umberto I, o di un Niguarda di Milano concorrenziali in termini di servizi alberghieri e comfort con le migliori strutture private. Se si pensa che, normalmente, non si riescono a reperire i fondi neppure per l’ordinaria amministrazione l’idea di interventi di tale portata è roba da far tremare i polsi, soprattutto con un sistema di finanziamento che nei vari passaggi tra stato centrale, regione e aziende sanitarie è quanto di più burocratico si possa immaginare.
I finanziamenti? Te li do tra dieci anni…
In realtà il processo di riammodernamento delle strutture sanitarie sarebbe cominciato oltre dieci anni fa quando, alla fine degli anni ’80 in Finanziaria furono previsti stanziamenti straordinari per 30mila miliardi proprio a questo scopo. Per fare l’esempio della Lombardia che è la regione con il maggiore patrimonio immobiliare sanitario, nel suo caso furono stanziati circa 3mila miliardi da erogare in dieci anni in tre tranche. Nel ’90 furono stanziati i primi 720 miliardi più altri fondi per 184 miliardi, ma per problemi di varia natura fino al ’96 giacquero intatti. Nel ’96, la nuova giunta regionale avvio i cantieri arrivando, nel ’98, ad aprirne ben 209 per una spesa di 1360 miliardi. A quel punto si poneva il problema di accedere al resto (2040 miliardi) del finanziamento, cosa tutt‘altro che scontata dovendo fare i conti con i bilanci statali. Il 3 marzo scorso si è arrivati a un accordo tra la Regione e il Governo per accelerare l’arrivo dei fondi che, grazie all’elaborazione di nuovi canali di finanziamento elaborati dalla Lombardia (e subito seguiti anche da altre regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna), ha portato alla copertura da parte di Roma per 1124 miliardi mirati a 7 grandi interventi su strutture lombarde. A dicembre si avvierà un’ulteriore contrattazione per sbloccare gli ultimi 900 miliardi.
“Il nostro primo obiettivo arrivando in regione – spiega a Tempi Umberto Fazzone, dirigente del servizio pianificazione e sviluppo dell’assessorato sanità – è stato quello di utilizzare tutti i fondi erogati e non lasciarli giacere inutilizzati per anni come avvenuto in passato”. Ma, per l’appunto, per soddisfare gli standard strutturali, tecnologici e organizzativi stabiliti dal decreto del ’97 (che, tra l’altro, dettava in 5 anni il termine ultimo per compiere gli interventi) gli esperti indicano la spesa necessaria in 4.500-5.000 miliardi, a fronte di un finanziamento statale di 3.000 miliardi. E così torniamo al punto di partenza. Dove trovare gli altri 1.500-2.000?
Soldi privati, un affare per tutti Una prima strada avviata dalla regione Lombardia prevedeva la possibilità di accendere dei mutui. Una strada che, per i limiti di legge esistenti, ha permesso di reperire circa 500 miliardi.
“Per gli altri – continua Fazzoni – abbiamo utilizzato le leggi e i meccanismi esistenti per favorire la collaborazione tra pubblico e privato e la privatizzazione come previsto dalla legislazione”. In pratica, si è favorito l’ingresso nelle singole aziende sanitarie dei privati che hanno fornito i fondi necessari al riammodernamento delle strutture. In cambio dell’investimento, i privati hanno rilevato la gestione di alcuni servizi. Un classico esempio di facility management, insomma: in qualche caso servizi di mensa, o di giardinaggio, in altri si è provveduto al pagamento ai finanziatori della struttura di un affitto, in altri ancora si è affidata loro la gestione stessa delle strutture. È il caso, per esempio, dell’ospedale di Rovato, in provincia di Brescia, per il quale la Regione intende dare tutto in gestione, compresa l’attività sanitaria, ovvero quello che in termini tecnici viene definito “core business” dell’azienda, alla fondazione Don Gnocchi, cioè una delle massime istituzioni nel campo della riabilitazione e con l’esperienza di centri riabilitativi sparsi in tutta Italia e considerati all’avanguardia. Nel caso dell’ospedale Sant’Anna di Como le difficoltà degli interventi necessari a riammodernare la struttura, oltrettutto mantenendo l’istituto in attività sarebbero enormi. L’alternativa ipotizzata dalla Regione prevederebbe la costruzione di una struttura nuova di zecca che risolverebbe molti dei problemi esistenti. Il finanziamento complessivo statale di circa 90 miliardi, però non coprirebbe nemmeno un terzo del costo della nuova struttura, 300 miliardi circa. Il progetto prevederebbe una joint venture con alcuni imprenditori della zona che garantirebbero parte degli altri miliardi necessari, un investimento ammortizzabile con la gestione esterna di alcuni servizi. Tra l’altro, il progetto permetterebbe la riqualificazione della vecchia area che, con la realizzazione di strutture abitative o del terziario, consentirebbe il recupero di danaro fresco spendibile nel nuovo impianto.
Allarmi son secessionisti…
In definitiva, quindi un modello di gestione sanitaria altamente manageriale che, per superare inghippi burocratici e cercare i soldi necessari non ha timori a collaborare con investitori privati. La delibera regionale che ha avviato il processo è della primavera scorsa e ha scatenato le ire della ministra che l’ha definita un atto di “secessione sanitaria” destinato, naturalmente, a svendere la sanità ai privati. In realtà, il testo regionale sottolinea la necessità che i progetti preliminari delle iniziative di collaborazione con i privati siano “caratterizzati da precisa definizione degli obiettivi, delle risorse impiegate, dei tempi e delle modalità di attuazione e di verifica dei risultati” e siano sottoposti ad approvazione della Giunta regionale; inoltre prevede l’istituzione di una Commissione regionale dei garanti che verifichi e controlli i risultati raggiunti e di una Consulta che definisca e sviluppi tutte le problematiche normative, finanziarie ed organizzative connesse.
Quindi, non un progetto concepito per gettare le strutture sanitarie in pasto al mercato selvaggio.
ma sto mercato non è poi così malvagio Per la Bindi però tutto ciò che viene dal privato è frutto del diavolo. Soprattutto se ha a che fare con la giunta regionale lombarda. La giunta, si badi bene, non la Lombardia. Perché, in verità, sembra che a forza di combattere le iniziative di Formigoni anche la ministra abbia incominciato ad apprezzare le regole del mercato. Il fatto strano è questo. Prendiamo il caso dell’ospedale Besta di Milano. Si tratta di un Irccs, che sta per Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, e in quanto tale dipende direttamente dal ministero. Anche in questo caso si deve provvedere a realizzare una nuova sede. E, colpo di scena, che ti fa il ministro? Una bella joint venture! Per raggranellare i miliardi necessari all’opera non ha scrupoli a svendere un gioiello della sua sanità popolare al mostro privato. E che privato. Si tratta nientemeno che della Pirelli alla quale il ministero sta avanzando una proposta di joint venture per costruire il nuovo Besta alla Bicocca e, magari, delegare i servizi della struttura alla “Centrale servizi” società del gruppo industriale milanese, o, forse, dar loro in mano la vecchia struttura. Insomma, niente male per una delle maggiori avversarie del mercato.
Ma non è l’unico caso. Trasferiamoci al San Matteo di Pavia, altra struttura Irccs. Si tratta di un ospedale molto grande per la quale la ristrutturazione in vista dell’attività di libera professione intramoenia comportava oneri enormi. Senza contare che chiedere al personale medico di svolgere attività esclusiva per il San Matteo comporta una lievitazione non indifferente dei costi per gli stipendi. Ed ecco che la Bindi cala un altro asso. Spazio ai privati, stranieri questa volta. Si tratta della Compagnie generale de Santé, una società privata da 5 miliardi di Franchi (circa 1.500 miliardi di lire) l’anno specializzata nella gestione sanitaria e con interessi in tutto il mondo, la quale ha ristrutturato l’intero complesso e ora ne gestisce l’attività incassando, in compenso, i rimborsi regionali previsti per le prestazioni. Insomma, un classico meccanismo alla “lombarda”, come direbbe il ministro. E infatti in Regione tutti si dicono felicissimi delle iniziative del ministro. Resta da capire come mai in questo caso non si tratti di una forma di secessione sanitaria e perché queste meritori progetti della Bindi non debbano prima passare in conferenza Stato-Regioni come invece preteso dalla ministra per le cosiddette sperimentazioni gestionali con collaborazioni tra strutture del Ssn e aziende private.
Lo dice anche l’Europa In molti si chiedono che cosa abbia spinto la Bindi a superare la repulsione per il demone privato fonte di ogni male e ingiustizia. Si dice che molto abbiano contribuito le numerose indicazioni emerse in ambito europeo. Non ultimo, l’intervento del 19 marzo scorso di Josep Figueras, responsabile europeo dell’Organizzazione mondiale della salute e dell’osservatorio europeo sui sistemi sanitari il quale osservava che “Nei sistemi di erogazione dei servizi, la revisione del rapporto tra Stato e mercato ha portato a una effettiva separazione tra la funzione di produzione e la funzione di acquisto” e che “la separazione delle funzioni di produzione e di acquisto dei servizi in sistemi sanitari con modello Servizio sanitario nazionale sembra poter dare risultati in termini di incremento della produttività, innovazione e qualità”. Forse è per questo che in tutto il mondo le strutture sanitarie definiscono gli obiettivi da centrare e poi lasciano ai medici piena libertà e autonomia sui tempi e i modi per raggiungerli. L’importante sono i risultati, e in effetti pare che siano buoni. Ma, evidentemente, al corso di gestione sanitaria, dopo le lezioni su investimùenti e ristrutturazioni, il nostro ministro non ha ancora affrontato il corso sulla “libertà di cura”.