Che le intenzioni della vita non siano un problema politico ma siano il problema politico ce lo hanno insegnato nei paesi dell’ex Unione Sovietica e satelliti uomini come Solzenicyn e Havel. Il punto è che, dopo la caduta del Muro, né postcomunisti né liberali hanno ritenuto politicamente decisiva e condizione per la democrazia la “lotta per la religione” (Masaryk). Ovvero, hanno escluso dalla politica la lotta per il significato della vita.
È qui che la società “globalitaria”, progressista o conservatrice che sia, si specchia nei totalitarismi del passato mostrandone la cupa e persistente attualità. Come insegna la Cina (definita da Repubblica un esempio di “comunismo di successo”), apertura al mondo e “diritti umani” secondo un’etica stabilita da un potere impersonale (dalla Coca Cola all’agenda gay, dalle leggi anticorruzione al diritto all’aborto non selettivo, tale è il “comunismo di successo”) stanno procedendo di pari passo alla repressione dell’esperienza religiosa (soprattutto se cristiana) che è primaria apertura al mondo e diritto umano fondamentale.
Questo succede perché la lotta per il significato della vita rappresenta l’unica reale minaccia per il potere impersonale. Ciò è così vero che nel continente dove un vuoto di vita fa il paio con un “pieno” di potere impersonale (regolamentare, tecnico, giurisdizionale) l’indifferenza alla “lotta per la religione” si traduce in cupo e persistente “odio di sé”. Come ci hanno testé ricordato le proteste contro la Merkel che, per una volta, ha detto una parola vera e disinteressata («il cristianesimo è la religione più perseguitata al mondo»). O come tocchiamo con mano nella consunzione dell’immagine sociale ed emarginazione politica delle Chiese cristiane.