Barcellona
Il sogno dei nazionalisti catalani che cominciò all’inizio del XX secolo, si ravvivò negli anni Sessanta durante il franchismo e diede come frutto un governo autonomista nazionalista dopo l’avvento della democrazia in Spagna, si sta trasformando in un incubo. La Catalogna ammirata e invidiata per il suo potenziale economico, per la sua pulsante creatività ed innovazione culturale e per la modernità che caratterizzava la sua società civile, si è convertita nell’ombra di ciò che fu. I 30 anni di governo nazionalista della Generalitat, prima con Convergencia y Unió e poi con un tripartito composto dal Psoe, dagli independentisti di Esquerra Republicana e dai radicali di Iniciativa por Cataluña (anch’essi independentisti), che si sono fondati sul vittimismo, sullo scontro con lo Stato spagnolo e la rivendicazione costante dei propri diritti di fronte al governo centrale, stanno presentando il conto. Con la crisi addosso, i politici nazionalisti spiegano che il motivo di questa perdita di competitività in tutti gli ambiti è provocata da una mancanza di investimenti dello Stato spagnolo nella regione, mancanza che pretendono attenuare grazie all’impegno acquistato con lo Statuto recentemente approvato. Questo nuovo dato giuridico che definisce le norme fondamentali della convivenza, la relazione con lo Stato spagnolo e il finanziamento catalano, stabilisce che il governo centrale dovrà investire 30.185 milioni di euro da qui al 2013. Ma il problema è più profondo, come denunciano politici, imprenditori e cittadini in generale che non si sentono nazionalisti. Questo settore della società catalana accusa il proprio governo di farsi scudo del denaro per non ammettere il fallimento di una politica basata sull’imposizione dell’identità catalana, sull’eliminazione dei riferimenti a tutto ciò che è spagnolo e nel distacco dalle vere necessità che stanno a cuore al cittadino.
Il detonatore di questa crisi che è scoppiata fra le mani del governo catalano e che ha posto all’ordine del giorno il declino di questa Comunità autonoma è stato il caos nelle infrastrutture. Per 42 giorni i catalani che utilizzano il servizio ferroviario dell’area metropolitana si sono dovuti alzare dal letto due ore prima per andare al lavoro. La fretta dei politici di veder realizzata la linea dell’Alta velocità per Barcellona prima delle prossime elezioni ha causato una serie di disastri nei cantieri delle opere che sono culminati nella chiusura temporanea di due linee ferroviarie sulle quali viaggiano centinaia di migliaia di cittadini e nel conseguente caos della circolazione sulla strade.
Il problema delle infrastrutture non è nuovo. Lo scorso mese di luglio la rete elettrica soffrì un grave black-out che durò vari giorni in Catalogna, a causa di un mancato rinnovamento che viene da lontano. Il suo stato di degrado è tale che, secondo le associazioni imprenditoriali locali, l’economia di questa regione perde ogni giorno 6,7 milioni di euro a causa del suo cattivo funzionamento. L’anno passato l’economia catalana non è stata capace di creare posti di lavoro qualificati e nemmeno riuscì a mantenere quelli esistenti, poiché perse 13.200 posti di lavoro di questo tipo. E come se non bastasse, la legge sull’ambiente catalana, che obbliga tutte le imprese potenzialmente contaminanti, comprese le pmi, a conformarsi senza dilazioni temporali, l’eccessiva burocrazia e l’insicurezza giuridica stanno provocando un autentico esodo: 1.200 piccole imprese si sono trasferite nelle regioni limitrofe, e le grandi hanno scelto la delocalizzazione, il che ha provocato la perdita di 14 mila posti di lavoro. Brutti numeri che per qualunque governante sarebbero considerati la conseguenza di una politica economica sbagliata, ma che per molti politici e imprenditori nazionalisti catalani ha una spiegazione basata sulla loro eterna rivendicazione: «La resistenza delle imprese a implicarsi in questioni di ambito politico e identitario», come ha affermato l’ex presidente della Generalitat, Jordi Pujol. La soluzione, naturalmente, passerebbe attraverso il recupero dell’identità del paese e dei caratteri che storicamente connotano i catalani.
Nell’ambito dell’educazione la situazione peggiora anno dopo anno. Secondo uno studio pubblicato recentemente, il 34,1 per cento degli studenti catalani fra i 18 e i 24 anni non riesce a completare le medie superiori o la formazione professionale superiore. I fallimenti scolastici si avvicinano al 30 per cento e soltanto il 60,3 per cento dei giovani che frequenta le medie superiori o la formazione professionale riesce a completare gli studi. Nonostante il vittimismo di cui hanno sempre fatto mostra i politici nazionalisti catalani, la crisi che sta vivendo questa società va molto al di là di un deficit di investimenti da parte dello Stato spagnolo. Secondo il vicepresidente del Parlamento europeo Alejo Vidal Quadras, ex presidente del Partito popolare in questa regione, il problema è strutturale e non solo economico: «La Catalogna è prigioniera di un pensiero unico nazionalista escludente, strapaesano, riduttivo, impoverente che la limita in tutti i sensi. Perché tutta la classe politica catalana, con l’eccezione del Partito popolare, è impazzita e vive una frenesia secessionista che ci sta portando ad una crisi del sistema». Secondo Vidal Quadras, «i politici catalani hanno perso il contatto con la realtà e sono sprofondati in un sogno particolarista che li allontana dal buon senso. Mentre metà della società catalana resta immobile perché il nazionalismo impone una tale pressione psicologica e normativa sulla gente che, alla fine, i dissidenti non osano farsi valere per paura».
Le cifre della paralisi
A livello economico, le cifre dimostrano la paralisi. Secondo i dati, l’economia catalana ha perso vigore negli ultimi anni e la sua incidenza sull’insieme del Pil spagnolo è scesa dal 1998 di circa quattro decimi di punto, cioè quasi lo stesso valore che ha guadagnato Madrid. Il presidente del Pp in Catalogna, Daniel Sirera, denunciava recentemente che il governo della Generalità spendeva sempre più denaro nel potenziamento degli elementi identitari della cultura nazionalista catalana. E il nuovo Statuto catalano rafforzerà questa posizione, poiché stabilisce una politica interventista che presenta impostazioni come il fatto che si controlleranno le attività imprenditoriali tenendo presente che gli imprenditori saranno tenuti ad esercitare la “responsabilità sociale” (che naturalmente sarà definita dai nazionalisti) o che si porteranno a compimento politiche per obbligare i professionisti a parlare catalano.
Nell’ambito culturale risalta la politica di imposizione sociale della lingua catalana su quella spagnola da parte dei governi nazionalisti. Secondo il giornalista e scrittore César Alonso de los Ríos, «sono molti gli intellettuali e gli artisti che denunciano il clima asfissiante che soffrono, però è stato tale il loro impegno nel consolidamento del nazionalismo che non sono capaci di fare una revisione del processo che cominciò cinquant’anni fa». Questa imposizione linguistica si è tradotta in una vera sfida che ha cercato di convertire il catalano in lingua veicolare della società, ostacolando il diritto dei genitori a scegliere il castigliano per l’educazione dei loro figli, obbligando gli alunni a parlare in catalano nelle scuole, proibendo ai commercianti di esporre nei loro negozi scritte esclusivamente in spagnolo.
Ma probabilmente sono le conseguenze sociali dell’asfissiante politica nazionalista quelle che più hanno danneggiato la Catalogna, allontanando buona parte dei cittadini dai suoi politici, come si è visto nel referendum per l’approvazione del nuovo Statuto di Catalogna, per il quale meno della metà dei cittadini ha votato. Secondo l’intellettuale barcellonese Juan Carlos Girauta, la società catalana sta restituendo alla sua classe politica quello che la classe politica ha mostrato a lei in tutto questo tempo: disinteresse. «I politici nazionalisti hanno sostituito la società civile con un’altra società civile sovrapposta, falsa, creata per mezzo della clientelizzazione di tutto ciò che ha a che vedere col pubblico. I politici hanno creato e sovvenzionato con milioni di euro ogni tipo di “piattaforma” e “società” teledirette che sono state incaricate di rivendicare quello che loro volevano imporre: dalle rappresentative sportive separate fino alle imposizioni linguistiche», assicura Girauta. «Ciò ha fatto sì che molti pensino che la società civile catalana condivida i postulati dei politici catalani, ma questa non è la realtà».