Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Due settimane fa, rientrando a Monza dalla redazione milanese di Tempi, un giovane di colore è salito sul treno e ha preso posto proprio davanti a me. Con lui c’era un ragazzo più piccolo, dalla carnagione mediorientale. Il nero si chiamava Abdul e aveva voglia di parlare, mentre l’altro, il ragazzino, ascoltava. Sul vagone affollato di pendolari, ciascuno si faceva gli affari suoi. Come ogni sera, ognuno se ne stava rintanato nel proprio cantuccio in compagnia del suo cellulare, in un mondo a parte, ad ascoltare musica o a muovere vorticosamente i pollici sul giochino elettronico, a chattare o a scorrere i messaggi sull’iPhone. Abdul chiedeva all’italiano se per caso conoscesse il Corano. L’italiano chiedeva ad Abdul se per caso avesse letto il Vangelo. Trovarono che una figura familiare, comune al Vangelo e al Corano, era Maria, la madre di Gesù. La conversazione tra il nero che fa l’operaio e il bianco che fa il giornalista è durata una ventina di minuti. Poi il bianco è sceso lasciando al nero un indirizzo di posta elettronica.
Luigi Amicone
Ciao, ti ricordi di me? Sono un marocchino, mi chiamo Hassan e sono quello del treno Porta Garibaldi-Lecco. Quello che non parlava, l’amico di Abdul, il ragazzo della Costa D’Avorio a cui hai detto che facevi il giornalista e hai dato la mail. Dopo quello che è successo a Parigi volevo dirti qualcosa. Sono anch’io musulmano e tutta la mia famiglia è musulmana. Però io ho vissuto con loro solo gli ultimi tre anni della mia vita, il resto li ho vissuti con una coppia italiana. Li ho conosciuti in una chiesa, perché quando sono venuto qui in Italia io e mia madre non avevamo un posto dove dormire, quindi stavamo per strada e facevamo l’elemosina. Mi ricordo che allora, quando facevamo l’elemosina per strada e anche davanti a quel posto che chiamavano “chiesa”, vedevo (a differenza di oggi) tante persone che andavano lì. Io non sapevo cosa volesse dire “andare in chiesa”. E a dire la verità, io non sapevo neanche cosa fosse una “chiesa”. Ma un giorno qualcosa mi ha spinto a entrare e la prima cosa che ho visto in chiesa è stata l’immagine della Vergine Maria che teneva in braccio Gesù bambino. Poi, camminando e guardandomi in giro, in un posto che ho scoperto chiamarsi “sacrestia”, ho visto Gesù crocifisso. Sono rimasto lì impalato per un po’. A un certo punto è arrivato un signore barbuto che mi ha guardato e mi ha detto: «Cosa ci fai qui?». Gli ho risposto: «Ero curioso e sono entrato». Allora lui mi ha preso per mano e mi ha detto: «Vieni con me». Da quell’incontro la mia vita è cambiata. Scusi per il lungo prologo, non volevo dilungarmi così tanto, solo voglio che lei capisca.
Una coppia di italiani mi prese in affido nella loro casa (poverini, li ho fatti di sicuro disperare, da bambino ero ingestibile e un po’ anche adesso, ma sono dettagli). Mi hanno preso a casa loro come un dono fatto da Dio e mi hanno insegnato tutto ciò che sapevano, non come maestri, ma vivendo semplicemente. Mi hanno dato delle regole necessarie e poi mi hanno fatto vedere, anzi mi hanno reso partecipe, della grandezza in cui vivevano. All’inizio per me era incomprensibile quello che facevano. Per me loro erano davvero bizzarri: di mattina pregavano, prima di mangiare pregavano, prima di dormire pregavano. E quando io gli esponevo i miei primi problemi esistenziali (e sapete quali problemi esistenziali poteva porsi un bambino che cresceva e diventava adolescente) loro semplicemente mi dicevano di affidarli nelle mani di Dio. Che strani. Ma era proprio quella stranezza che li rendeva così speciali. La loro vita la affidavano completamente a un Altro e questo oggi non capita mai (cioè sì, ci sono dei casi, ma non come loro, loro sono unici nel loro genere).
Io adesso non abito più con loro. Adesso abito di nuovo con i miei veri genitori. Posso dire che è differente la storia, non è affatto uguale, mi sento perso. Forse perché non mi affido più. E forse è proprio questo il problema di questo mondo: il problema è che siamo troppo orgogliosi, fin troppo orgogliosi, per chiedere una mano, per chiedere perdono. Mia mamma (la vera mamma) ogni giorno si sveglia presto, prega e poi va al lavoro. Torna e prega per altre quattro volte. Affida tutto – le sue preoccupazioni, i litigi a casa, mia sorella, i nipoti, i suoi fratelli – lei chiede tutto e affida tutto ad Allah. Forte vero? Forse le persone che hanno fatto quella strage l’altro ieri e tutte le persone coinvolte (inclusi i capi) non si affidavano più, hanno smesso di credere, hanno smesso di amare. Lo so che la parola “amore” è strausata, però è così: loro hanno smesso di amare se stessi e gli altri, hanno smesso di essere liberi. E per che cosa? Perché delle persone dovrebbero rinunciare a qualcosa che ti fa stare bene, a qualcosa che ti fa affrontare il dolore in un altro modo? Io non lo so, lei lo sa?
Hassan
Foto Ansa