A Firenze si celebra (per ora solo su giornali e tv) il processo dell’1 per cento, quello sul presunto “sistema” Incalza-Perotti, che ha portato alle dimissioni da ministro delle Infrastrutture del non-indagato Maurizio Lupi. Per una volta anche Tempi ha deciso di leggere le carte dell’indagine, stranamente finite sulle scrivanie delle redazioni di mezza Italia e stranamente lette da tutti i giornali allo stesso modo. Sono migliaia di pagine. Un lavoro lungo e puntiglioso da cui è nato il nostro “Controromanzo”, il lungo servizio a cui è dedicata la copertina del settimanale in edicola da domani, giovedì 26 marzo (qui la pagina degli abbonamenti).
Cosa abbiamo scoperto? Che quello girato sul palcoscenico dell’informazione a proposito dell’inchiesta Grandi Opere è un pessimo film.
LE MAZZETTE? SUPERFLUE. Per la procura di Firenze l’«organizzazione criminale di spessore eccezionale» di cui Incalza e Perotti farebbero parte «può essere considerata una delle cause, se non la principale, della lievitazione abnorme dei costi, della devastante distorsione delle regole della sana concorrenza economica e non da ultimo dell’aumento esponenziale del debito pubblico nazionale». Ma a parte l’enfasi che subito è riecheggiata nelle cronache di una stampa colpevolmente suggestionabile, il “dettaglio” sfuggito a quasi tutti i media è che per dimostrare l’esistenza del mostruoso sistema di corruzione condotto da Incalza e Perotti, secondo i pm, «non è necessario pervenire a “fotografare” la dazione di occulte somme di denaro in contanti: le c.d. “mazzette”». Le bustarelle, insomma, non ci sono. Ed ecco che per gli inquirenti diventano «un ricordo quasi patetico dell’agire illecito del secolo scorso», mentre «nella moderna prassi corruttiva, l’alto dirigente del ministero delle Infrastrutture (Incalza, ndr) è ormai diventato compartecipe di soggetti privati in un’organizzazione criminale tesa alla condivisione delle faraoniche remunerazioni derivanti dagli incarichi professionali pilotati».
UN AFFRESCO «GIORNALISTICO». I magistrati toscani sono convinti di aver scattato «la fotografia della più deprecabile e devastante mercificazione delle alte funzioni di uno dei più importanti dirigenti dello Stato e della deriva meschina in cui ampi segmenti della imprenditoria italiana sono sprofondati». Tempi con il numero in edicola domani ha deciso di osservare a fondo questa fotografia, per capire se abbiano ragione i giornali a sposare senza troppe domande le tesi dell’accusa, costruite intorno alle dichiarazioni del grande accusatore Giulio Burchi (che è pur sempre un concorrente di Perotti nei guai con il fisco), o se invece non abbiano ragione gli stessi pm quando riconoscono che «l’affresco» del presunto sistema «ad una prima lettura potrebbe apparire un azzardo interpretativo, quasi di natura giornalistica».
QUELLO CHE NON È STATO ANCORA SCRITTO. Per dare una risposta a questo interrogativo gioverebbe innanzitutto ricordare un fatto, che emerge dalle carte studiate da Tempi ma che la stampa si è dimenticata di sottolineare. Il fatto che si tratta della terza inchiesta aperta dalla procura di Firenze sul tema Grandi Opere, il terzo ordine di custodia cautelare in cinque anni, scaturito da indagini che si susseguono da almeno 7 anni, senza che si sia giunti ad alcuna sentenza. Ricordate Bertolaso? Ecco. Paragonando le carte dell’indagine a quanto uscito sulla stampa, si può dire che da allora i processi in ballo sono almeno tre: quello mediatico-politico che ha portato alle dimissioni del ministro del Lupi; quello che ha portato all’arresto di Incalza, Perotti e di alcuni loro collaboratori; quello che riguarda alcuni esponenti de Partito democratico, e di cui non si è scritto. Per il momento.
Foto Ansa