Un ginecologo di Mantova è stato condannato dalla Corte di cassazione a risarcire una coppia per i presunti “danni” causati loro dalla nascita, dieci anni fa, di una bambina affetta dalla sindrome di Down. Se ne occupa oggi Lucia Bellaspiga per Avvenire, definendo il verdetto «sentenza choc» per diversi motivi. Innanzitutto perché all’epoca il padre e la madre della bambina «comunque decisero di non riconoscerla»; poi perché «nei primi due gradi di giudizio il medico era stato assolto»; e anche «perché il ginecologo, si legge nella sentenza, non è stato condannato per una colpa medica (non ha sbagliato una diagnosi o letto male i risultati di un esame, insomma), ma non avrebbe impostato un giusto rapporto con la sua paziente».
LA “COLPA”. La donna, una cittadina ceca «appena ventenne», aveva infatti dichiarato preventivamente al ginecologo la propria volontà di abortire nel caso in cui la figlia non fosse stata “sana”. E cosa ha fatto il medico per meritarsi la condanna? Come spiega la giornalista di Avvenire, il dottore, pur avendo scoperto che «il bi-test era positivo», tuttavia «non ha consigliato un’amniocentesi», cosa «normale data la giovanissima età» della gestante. E dunque lo specialista «non ha sbagliato nel suo operato» ipotizzando diagnosi errate o prescrivendo terapie balzane. Semplicemente, secondo la Cassazione, «avrebbe avuto il dovere di prospettarle tutti gli esami prenatali utili a rilevare eventuali malformazioni del feto». Ma allora, si interroga la Bellaspiga, «da oggi i medici per tutelarsi proporranno a ogni donna incinta tutte le analisi prenatali esistenti atte a rilevare ogni possibile difetto?». Con tutte le conseguenze che questi esami possono comportare sulla salute del nascituro e sulla serenità dei genitori?
«STIAMO REGREDENDO». Avvenire intervista sull’argomento Germana Lancia, 53enne responsabile dello sportello disabili dell’università La Sapienza di Roma. Germana «è nata affetta da una grave e progressiva patologia altamente invalidante», ricorda la cronista, «una di quelle che le analisi prenatali magari scoprirebbero “in tempo” per interrompere la gravidanza». La donna è anche già nota alle cronache perché «in passato aveva scritto al presidente Ciampi per chiedergli l’eutanasia, e anni dopo gli aveva scritto per ringraziarlo di non avergliela concessa». E oggi è costretta a constatare che «su noi, persone disabili, c’è una grande sensibilità formale. Nella sostanza, invece, la società sta regredendo a grandi passi e questa sentenza ne è la prova».
LA GRANDE IPOCRISIA. «Da oggi dovrebbero essere condannati tutti i medici, a prescindere dal loro operato», dice. «Anche di fronte a un lieve malore, dovrebbero far firmare un’informativa che riporti tutte le patologie possibili e pure un avvertimento: “possibile anche la morte”». Ma la questione per Germana Lancia non è appena l’effetto dannoso che questa sanzione potrà sortire su un sistema sanitario già patologicamente affetto da un eccesso di medicina difensiva (tra l’altro, per inciso, il dottor Maurizio Poletti si difende in una intervista alla Stampa sostenendo che in realtà lui quegli esami preventivi li aveva consigliati eccome: «Alla paziente ho spiegato tutto, compreso che sarebbe stato meglio effettuare una amniocentesi. È stata lei a rifiutarsi, ma siccome non le ho fatto firmare niente non posso dimostrarlo»). La questione è prima di tutto di mentalità e di società: «Sulle persone disabili vige una grande ipocrisia: si celebrano tante giornate mondiali, ma poi sono “vite indegne”… Se potessi parlare con una madre che scopre di avere in grembo una creatura disabile, vorrei dirle di non preoccuparsi, che la società le starà accanto nel suo difficile percorso, che mai nessuno discriminerà la sua bambina… Vorrei, ma so che la realtà non è questa. Come ben dimostrano i giudici di questa sentenza e i genitori di questa povera bambina scartata».
LA LEZIONE DI MOUNIER. Germana, scrive la Bellaspiga, «vive una vita piena di limiti eppure gratificante nella sfera affettiva e professionale», e ad Avvenire spiega che «la forza mi arriva dalla mia instancabile fede». Dice: «Ho sempre pensato che chi ha problemi occupa un posto speciale nell’immenso cuore di Dio». E proprio in questa intuizione sta probabilmente la chiave per il cambiamento di mentalità che questa «sentenza choc» e la testimonianza della signora Lancia chiedono a tutti. È la lezione gigantesca di Emmanuel Mounier, che ci permettiamo di riproporre di seguito attraverso un brano tratto da un intervento di don Luigi Giussani pubblicato dal mensile di Cl Tracce nel numero di gennaio 1996, vent’anni fa.
«Il miracolo – il rapporto di Dio con noi – è qualcosa che uno vede, sente, tocca, è una realtà presente, è il contenuto di una esperienza: uno che assiste, uno che guarda seriamente uno solo di questi fatti travolge tutte le parole di tanti intellettuali e giornalisti in voga i quali tendono, da una parte, a fare degli uomini, delle famiglie, degli amici, dei compagni, gettate di cemento per le mura della loro fortezza di potere, dall’altra parte, ad affermare che tutto è niente.
Che grande fantasia! Sì, ci vuole una fantasia da matti, è proprio una fantasia da matti dire che tutto è niente: non c’è niente di più contrario all’evidenza di cui l’uomo vive. Così s’attardano, queste voci del mondo, ad affermare che non hanno alcun senso, nessun valore, le parole con cui si esprimono quella umanità, quella dedizione, quella generosità, quell’altruismo, cioè quella possibilità di essere umani in cui, invece, sta il sentore della responsabilità di fronte a tutto. Come affiora nelle lettere di Emmanuel Mounier a sua moglie. Di fronte alla figlia che a causa di una meningite è rimasta idiota tutta la vita, egli ha vissuto responsabilmente, come risposta al Mistero che fa tutte le cose, come risposta a Cristo, che in questo mistero assicura la positività ultima; egli ha vissuto come responsabilità, come risposta a Dio, ogni giorno, ogni ora che passava, con quella figlia davanti agli occhi.
Chiunque vi fosse di tutti i grandi politici, pensatori e artisti di allora che passarono da casa sua, alla tavola imbandita il posto d’onore era sempre della piccola idiota, perché essa rappresentava il mistero del divino, piagato, ombrato, nascosto sotto una carne opaca, una carne che non dava segno di vita. Come Mounier di fronte alla figlia sentì la responsabilità del mondo, così noi siamo, come lui, dominati dal rimorso per il rifiuto della santità, che è risposta a Dio, vivere come risposta a Dio, al Mistero.
“In questa storia, la nostra disgrazia ha assunto un’aria di evidenza, una familiarità rassicurante, o, piuttosto, non è la parola giusta, impegnata: un richiamo che non dipende più dalla fatalità. La guerra è scoppiata, tanto da coinvolgerla nella grande miseria comune. Così immerso, il peso è divenuto più lieve. La guerra ha offerto a P. i momenti più atroci della solitudine e dell’angoscia. In settembre, in aprile. Ma, nonostante questi momenti, essa ha finito per guarirci dalla malattia di Françoise. Quanti innocenti straziati, quanti innocenti calpestati! Questa piccola bambina immolata giorno per giorno è stata forse la nostra vera presenza nell’orrore dei tempi. Non si può soltanto scrivere libri. Bisogna pure che la vita ci stacchi ogni tanto dall’impostura del pensiero, del pensiero che vive sulle azioni e i meriti altrui”.
“Ora che la minaccia di aprile si è allontanata, ora che sembra si debba continuare a vivere insieme, Françoise, piccola mia, sentiamo una nuova storia intervenire nel nostro dialogo: occorre resistere alle forme facili della pace segnata dal destino, rimanere padre e madre, non abbandonarti alla nostra rassegnazione, non abituarci alla tua assenza, al tuo miracolo; donarti il tuo pane quotidiano di amore e di presenza, continuare la preghiera che tu rappresenti, ravvivare la nostra ferita, poiché questa ferita è la porta della presenza, restare con te. Forse occorre invidiarci questa paternità incerta, questo dialogo inespresso, più bello dei giochi infantili” (Lettere sul dolore, Bur, pp. 67-68)».
Foto bambina da Shutterstock