Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Senza di voi sarebbe stata una vera carneficina». Monsignor Juan José Aguirre Muñoz lo sa bene ma non gli piace essere al centro dell’attenzione. Ciò non toglie che quello che molti responsabili di Ong sono andati a dirgli sia la verità. Quando il 14 maggio centinaia di miliziani anti-balaka sono entrati in forze nella città di Bangassou, nella parte sud-orientale del Centrafrica, il loro intento era uno solo: uccidere tutti i musulmani. I soldati della Minusca, la missione Onu che conta 12.500 effettivi nel paese africano, ha consigliato a tutti i musulmani di radunarsi nella moschea locale promettendo di proteggerli. Invece, dopo poche ore, se ne sono andati, lasciandoli alla mercé delle milizie. È allora che il vescovo e i suoi sacerdoti sono accorsi frapponendo tra i musulmani e i ribelli i propri corpi. Oltre 100 persone erano già state uccise dentro la moschea, ma il loro intervento, insieme a quello del contingente portoghese dell’Onu, ha permesso a tutti gli altri di salvarsi. Per due giorni i musulmani sono rimasti chiusi dentro la moschea, vivi e morti, poi sono stati trasferiti nel seminario minore cattolico, vicino alla Cattedrale di Bangassou. È qui che in più di duemila vivono da cinque mesi, protetti dalla Chiesa: i più fortunati occupano le stanze del seminario, gli altri si sono accampati in baracche improvvisate e tende di fortuna. «Per noi accogliere i musulmani non è qualcosa di eccezionale, anzi direi che è quasi scontato», spiega a Tempi monsignor Aguirre. «Questa è la vocazione della Chiesa cattolica: accogliere tutti coloro che sono nel bisogno. Non abbiamo guardato la religione, non abbiamo diviso i buoni dai cattivi, abbiamo cercato di imitare il buon samaritano del Vangelo». Il vescovo parla come se fosse tutto normale ma, almeno in Centrafrica, non lo è affatto.
Per capire perché centinaia di persone hanno effettuato una spedizione punitiva contro i musulmani bisogna fare un passo indietro e tornare alle radici del conflitto, che risale al 2013. Il 24 marzo di quell’anno una coalizione di mercenari islamici provenienti da Ciad e Sudan, i Seleka, guidati dal presidente golpista Michel Djotodia, con un colpo di Stato hanno conquistato la capitale Bangui. I Seleka non parlavano né francese né sango, ma arabo, anche se l’unica lingua che hanno dimostrato di conoscere è quella della violenza, quasi sempre settaria e indiscriminata. Per otto mesi gli islamisti hanno derubato, ucciso e torturato i cristiani, che rappresentano circa l’85 per cento della popolazione. Hanno razziato le concessioni cattoliche senza remore, spesso aiutati da parte della popolazione musulmana, che ha approfittato della situazione per prendersi rivincite personali o arricchirsi. Stanchi di vessazioni e violenze, i non musulmani, per lo più animisti ma anche cristiani, si sono organizzati in gruppi di anti-balaka, che significa “antidoto” in sango, per cacciare gli invasori. Ne è nata una guerra senza quartiere, culminata nei massacri di fine 2013 e inizio 2014, con gli anti-balaka che si sono presto trasformati da perseguitati a nuovi persecutori. Grazie all’intervento della Chiesa locale e di papa Francesco, la situazione è andata lentamente migliorando, un nuovo governo è stato eletto, la coalizione Seleka è stata dissolta, anche se di fatto si è solo divisa in tante piccole milizie che continuano a fare il bello e il cattivo tempo in Centrafrica. Secondo le stime più conservative, i gruppi armati controllano il 60 per cento del paese. Altre sostengono che non meno dell’80 per cento è nelle loro mani. Anche a Bangassou, città che si affaccia sul fiume Mbomou, confine naturale che separa il paese dalla Repubblica democratica del Congo, via fondamentale per i traffici illeciti, le violenze dei Seleka si sono fatte sentire: «Questi mercenari finanziati dai petrodollari dei paesi del Golfo hanno distrutto solo nella nostra diocesi 5 missioni della Chiesa su 11. Ci hanno rubato tutto. Hanno bruciato i villaggi, portando via alla gente disperata anche quel poco che aveva. Siccome le milizie islamiche non hanno ancora abbandonato il paese e la tensione è alta, in tanti identificano ogni musulmano con i Seleka. Per questo li vogliono uccidere: hanno sete di vendetta».
«L’Onu non ha fatto niente»
Il seminario minore di Bangassou basta a malapena per ospitare 500 persone, ma i musulmani sono 2000 e vivono in condizioni precarie: «Non possono uscire da qui, neanche per comprare da mangiare. Il seminario è accerchiato da un migliaio di anti-balaka, che li ucciderebbero all’istante», continua il vescovo. «La gente ha perso in media 8-10 chili a testa. I soldati dell’Onu ogni notte sparano per tenere lontani i ribelli ma così terrorizzano la popolazione e 20 mila su 35 mila abitanti sono già scappati. Purtroppo si è formato un gruppo di 50 violenti che la notte escono dal campo e razziano le case, anche quelle dei nostri religiosi. La tensione è enorme, la comunione tra le persone ormai si è rotta definitivamente. Se nel seminario entrasse un non musulmano, lo ucciderebbero immediatamente. Solo noi possiamo stare qui, perché li abbiamo aiutati».
Bangassou non è l’unica città del Centrafrica ad essere ripiombata nell’incubo della guerra civile e qualcuno dentro l’Onu parla già di una situazione di «pre-genocidio». Negli ultimi mesi tutto il paese è stato sconvolto dalle violenze: centinaia di persone sono morte ad Alindao, Bria, Bocaranga, Zemio e Kaga-Bandoro, principalmente per gli attacchi condotti da gruppi islamisti come 3R, Upc, Fprc e Mpc. Alcune città sono ormai deserte, con la popolazione che si rifugia nelle foreste o emigra verso città più sicure. Il Centrafrica, paese dotato di immense risorse naturali come legname, uranio, petrolio e diamanti, è diventato ufficialmente il secondo paese più povero al mondo e su 4,5 milioni di abitanti (il paese è grande il doppio dell’Italia) 1,1 milioni sono ormai sfollati. Nelle ultime settimane, per sfuggire alle violenze dei ribelli islamici che hanno investito la città di Bocaranga, nel nord del paese, 3.500 sfollati sono arrivati a Bozoum. «Hanno percorso a piedi più di 100 chilometri», racconta a Tempi padre Aurelio Gazzera, appartenente all’ordine dei carmelitani scalzi. «La gente è sfiduciata e spaventata. L’Onu non ha fatto niente per impedire agli uomini di 3R di occupare la città. Ora dicono di averli cacciati, ma l’hanno fatto senza sparare un colpo. I miliziani sono alle porte della città, credo che sia solo un’azione di facciata per convincere la popolazione che stanno facendo qualcosa. Ma nessuno vuole tornare. Negli ultimi giorni abbiamo iscritto circa mille bambini nelle nostre scuole. Dubito che andranno via prima della fine dell’anno». Con la Caritas e alcune Ong europee, padre Aurelio sta aiutando gli sfollati, «ci siamo procurati medicine, latte e riso», anche i poveri fedeli della sua parrocchia hanno raccolto generi alimentari da donare agli sfollati. La Chiesa fa tutto: «Il governo qui ancora non esiste. C’è un sindaco, tornato da poco dopo le violenze del 2013, che per la prima volta ha almeno fatto visita agli sfollati. Per quanto riguarda il prefetto e il sotto-prefetto, sono stati nominati ma nessuno li ha ancora visti in città».
Il timore che in Centrafrica possa ricominciare tutto da capo è grande: «La situazione peggiora dappertutto», continua padre Aurelio. «Le zone occupate e senza legge si moltiplicano. Le divisioni, anche etniche, tra la popolazione aumentano. Il governo, che non ha ancora un esercito regolare, e la Minusca sembrano impotenti. Ci sono degli accordi di pace, come quello sponsorizzato da Sant’Egidio, ma sono intese che lasciano il tempo che trovano. Vengono fatte senza alcuna garanzia di essere rispettate e così rischiano di essere solo un premio per le milizie. Molti miliziani, dopo essere tornati da Roma, freschi di firma dei trattati di pace, hanno ripreso a uccidere. Sono inaffidabili, bisognerebbe stare attenti prima di proporre accordi. Noi cerchiamo di parlare di riconciliazione, di calmare gli animi infuocati. L’ho fatto anche nell’omelia di domenica scorsa, ma da queste parti prima si uccide e poi si dialoga con chi è rimasto».
Ricominciare ancora
Ci sono piccoli segnali incoraggianti. A Bangassou, racconta monsignor Aguirre, «pochi giorni fa è nata una bambina. La madre mi ha permesso di prenderla in braccio e di soffiarle nelle orecchie. Chiunque altro sarebbe stato ucciso per questo». Anche il governo sembra essersi accorto della situazione e «sta organizzando dei ponti aerei per portare via i musulmani in altre capitali africane, in attesa che gli animi si plachino e possano tornare qui. Per qualche anno sarà impossibile». Il missionario spagnolo dell’istituto dei comboniani si trova in Centrafrica da 37 anni e da 20 è stato ordinato vescovo della diocesi.
Molto di ciò che ha costruito è andato distrutto: «Dopo il 2013-2014 abbiamo ricostruito tante cose che ora sono state rase al suolo di nuovo. Non importa. Prima dell’arrivo dei Seleka abbiamo vissuto tutti in pace per 34 anni, possiamo tornare a farlo. Dio è più grande delle nostre opere, se ha permesso che venissero distrutte sono certo che ci darà anche la forza di ricostruirle. Ricominceremo ancora, con la forza di Dio. La nostra speranza è grande».
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