Ieri si è verificata una curiosa coincidenza giornalistica che rivela in maniera perfetta che cosa sia diventata ormai l'”antimafia” in questo paese. O quanto meno un pezzo importante dell’antimafia, quello mediatico. Capita che Antonello Montante, 52 anni, presidente di Confindustria Sicilia e addirittura “delegato nazionale per la legalità” dell’associazione degli industriali italiani, si ritrovi indagato da un paio di procure dell’isola (Caltanissetta e Catania) proprio per concorso esterno in associazione mafiosa.
La notizia è sulle prime pagine dei giornali da due giorni. A quanto pare per alcuni pentiti era venuto il momento di parlare ai magistrati dei presunti legami di Montante con noti esponenti di Cosa Nostra. Lasciamo stare che, come ha osservato ieri il Foglio in un editoriale, finora si tratta di «accuse generiche e basate solo su rapporti di conoscenza tra compaesani» e non è affatto detto che si riscontrino reati nella condotta dell’indagato. E lasciamo stare anche che, trattandosi di rivelazioni di mafiosi pentiti, certe notizie andrebbero prese con mille cautele dai giornali, e invece come sempre le indagini «definite “blindatissime”» sono «già finite sulle pagine dei quotidiani». Pazienza. Il punto non è nemmeno questo.
Il fatto davvero notevole, nota sempre il Foglio, è che questi collaboratori di giustizia, «chissà come mai, si sono ricordati dell’industriale nisseno solo quando è diventato celebre come esponente dell’antimafia, qualsiasi cosa si voglia intendere con quell’espressione». Per altro Montante è appena diventato anche componente dell’Agenzia per i beni confiscati ai boss, quindi «può darsi sia proprio il ruolo che gli è stato assegnato ad aver sollecitato questo tardivo interessamento», continua il quotidiano. Può darsi perfino che qualche macchia ci sia davvero nel passato di un simile «santino della legalità», ma questo è impossibile stabilirlo prima del regolare (eventuale) processo, a meno di non voler basare il giudizio esclusivamente sulla versione dell’accusa.
Fatto sta che – ancora il Foglio – «come sempre è bastata la notizia filtrata dagli ambienti giudiziari per capovolgere l’immagine pubblica di una persona che, come chiunque, dovrebbe essere considerata innocente fino a eventuale condanna definitiva». E per carità, ripetiamo, nessuno, nemmeno Montante, è immune dall’errore, ma per chi creda ancora alle garanzie costituzionali (qual è appunto la presunzione di non colpevolezza) è difficile non arrivare alle stesse conclusioni tratte dal quotidiano diretto da Claudio Cerasa: «Quel che sembra di capire è che anche il circuito della “antimafia” tende a essere una specie di circolo esclusivo, nel quale si entra solo per cooptazione. Risulta rischioso assumere un ruolo di primo piano nella propaganda antimafiosa: si possono mettere in moto gelosie e ripulse che prendono corpo in modo devastante nel circuito mediatico-giudiziario».
Guarda caso sempre ieri – ecco la curiosa coincidenza di cui sopra – su Repubblica l’articolo di giornata sui guai giudiziari di Montante era accompagnato da un fondo di Attilio Bolzoni in cui si segnalava l’industriale siciliano come sommo simbolo di «un’antimafia» (dunque non la antimafia, ma un’altra) che «detta legge da qualche anno in Sicilia» e però è «senza anima, estranea ai siciliani, senza origine, un’antimafia che non ha radici nel sentimento più profondo dell’isola. È un’antimafia padronale che — non sempre, ma spesso — si impone per i propri interessi economici e per le proprie convenienze politiche. È una consorteria che nulla ha a che fare con la storia nobile e dolorosa dell’antimafia che comincia a Portella della Ginestra e passa per Pio La Torre».
E se quella di Montante «è un’antimafia di pochi», quale sarà per converso l’antimafia “di tutti”? Facile capirlo per i lettori di Bolzoni e di Repubblica. Mentre gli altri guardino bene di non cadere nella trappola intellettuale tesa da questa «struttura di potere» sedicente antimafioso di cui «un piccolo impresario di provincia come Montante» è perfetta «metafora». Trappola intellettuale che Bolzoni descrive così: «Basta autoproclamarsi dalla parte della legalità sempre e comunque e sfilare nelle parate con ministri e prefetti, questori, procuratori della repubblica, giornalisti, intellettuali. L’antimafia padronale si fa ideologia e detta l’agenda politica, organizza proteste e meeting, stabilisce in Sicilia gli stati di emergenza dei rifiuti, indirizza lo sviluppo economico, piazza assessori, distribuisce incarichi pubblici e ricche consulenze, assume familiari (anche di investigatori antimafia) e amici. E poi si piazza — su proposta del ministero dell’Interno — all’Agenzia dei beni confiscati. Un capolavoro. Chissà dove finiranno prima o poi le ricchezze strappate ai boss».
Appare particolarmente opportuna la citazione finale di Alfano come segno distintivo dell’antimafia di pochi, perché fin lì sembrava ancora pari pari l’antimafia di tutti.
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