Napoli, Poggioreale. «Tornando indietro non lo rifarei, ovvio. Perché sono consapevole. Ma a 18 anni non capivo niente della vita. Andava di moda fare il delinquente, era quasi uno sfizio. E poi lo sfizio diventa dolore, perché scontare una condanna lunga non è facile. Dobbiamo scordarci la vita fuori. E tentare di sopravvivere, all’interno del penitenziario». È una delle interviste raccolte in “Fratelli e Sorelle, Storie di carcere”, un documentario andato in onda su Rai 3 il 28 maggio (il 4 giugno verrà trasmessa la seconda parte, dedicata ai percorsi educativi di reinserimento). Una produzione Clippermedia, con la collaborazione di Raicinema e Raiteche, per la regia di Barbara Cupisti, che affronta il tema della vita nelle carceri italiane attraverso le voci dei protagonisti: detenuti, agenti di polizia, funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Le riprese sono state effettuate nei penitenziari di Torino, Milano, Padova, Trieste, Trento, Rebibbia, Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Terni.
Un progetto nato con lo scopo di penetrare nella realtà carceraria, nelle celle, nei corridoi dei bracci, nei cortili dell’aria, nei laboratori dove si svolgono attività artigianali, con capacità e creatività. Ma anche con tanta sofferenza per la lontanza dalle famiglie e dai figli. Nel dramma corale spicca la tragedia dei bambini al di sotto dei tre anni, che vivono in carcere con le madri. Reclusi innocenti su cui aleggia, allo scadere del terzo anno, il lutto insanabile della separazione dalla madre. «Abbiamo provato a mandarlo fuori a Natale, con una famiglia di volontari» racconta una ragazza bosniaca, detenuta a Trento. Suo figlio è nato in carcere. «Ma non riesce a staccarsi da me». Nonostante l’età, i bambini capiscono e chiedono: “Perché ci chiudono qui, mamma?” «Ogni volta gli raccontiamo una bugia. Ma è una doppia galera, uno stress sia per il bambino che per la madre. Io sono adulta, ce la metto tutta. Ma lui? Non è umano».
E alle madri che hanno un figlio fuori dalle mura del carcere? Spetta una telefonata a settimana, di dieci minuti. Il problema delle carceri in Italia è stato definito dal presidente della Repubblica «questione di prepotente urgenza civile e costituzionale». Sia per la lentezza dei processi, il 43% circa dei detenuti è in attesa di giudizio e di questi solo il 50% viene condannato, sia per il sovraffollamento delle celle, sono 67.000 i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 47.000 posti, che per l’attuale organico di polizia penitenziaria che è carente di circa 7.000 unità. Queste sono solo alcune delle cifre che quantificano l’emergenza carceri. Inoltre, la forte percentuale della presenza di stranieri, di giovani e di tossicodipendenti è la cartina di tornasole dell’utilizzo delle carceri come discarica del disagio sociale.
Milano, San Vittore: i detenuti mostrano le celle, sovraffollate.Uno, ex tossicodipendente, ripercorre la sua storia: «Seguivo il denaro. Crea assuefazione. Torni a infrangere la legge non tanto per i soldi, ma per rivivere quella sensazione. Io le chiamo gioie brevi». Il commissario Manuela Federico parla del sesto raggio, in cui ci sono 160 detenuti, e un solo agente a vigilare. Qualcuno cerca la telecamera: «Sono due settimane che faccio domanda per i vestiti. Manca il sapone. Il bagno non ha la porta». Un ragazzo egiziano spiega di essere in carcere per aver rubato 400 grammi di carne: «Purtroppo ho sbagliato e devo pagare. Ma non così. Sono qui da tre mesi, e non mi hanno ancora fissato l’udienza». Un altro, ex muratore, racconta di come ha perso bruscamente il lavoro: «Vivere a Milano costa, l’affitto non sapevo come pagarlo. La situazione era tesa, ho deciso di andare a rubare per comprare il biglietto per tornare in Brasile. Ho pensato anche di togliermi la vita. Mi hanno salvato gli agenti. Sto cercando di studiare un po’, qui dentro, per andare avanti».
Per Enrico Sbriglia, direttore della casa circondariale di Trieste, il documentario rappresenta «una delle testimonianze più aggiornate e sincere del sistema penitenziario italiano». Sincera perché «non ci sono finzioni nelle scene che si vedono, se non l’utilizzo delle necessarie cautele finalizzate a preservare la riservatezza delle persone detenute che hanno accolto, spontaneamente, la richiesta di raccontare il loro pezzo di vita carceraria. Anche gli operatori penitenziari hanno raccontato il loro difficile lavoro, in un mondo che in pochi della “società libera” conoscono. Ma di cui in tanti parlano, con preoccupante superficialità. Il nostro Paese stenta a guardarsi controluce sul tema e sul senso della pena». E il sistema è decisamente sofferente.
Basti pensare che il furto di una barretta di cioccolata o di un pezzo di parmigiano viene punito con sei mesi di detenzione. Se l’accusato è recidivo, si arriva anche a due anni. E un mese di detenzione, spiega Sbriglia, costa allo Stato (quindi al contribuente) circa seimila euro. Che fare? «Un atto di ragionevolezza. Pensate quanti ragazzini si sono trovati una vita distrutta, perché nell’età del rischio hanno commesso reati. Perché il rito processuale non distingue un pezzo di cioccolato dal furto del caveau di una banca». Un sistema che spende tanto per un reato modesto può reggere? «L’amnistia avrebbe il pregio di trasformare in risorse sonanti quello che oggi utilizziamo come costo dei detenuti. Preferisei usare quelle risorse per ristabilire un percorso con il detenuto. Mi rendo conto che può sembrare un discorso strano per chi vive fuori dalla realtà carceraria. Perché si tende a dare risposta di sofferenza ad ogni malvagità. Ma due torti non fanno una ragione».