Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Direttore responsabile
Emanuele Boffi
Da un paio di giorni le principali testate della grande stampa italiana – che ormai si sono messe a tirare la volata al ddl Cirinnà a testa bassa, senza porsi più neanche una domanda – insistono nell’offrire ai propri lettori articoli fotocopia in cui si elencano allegramente i tantissimi casi in cui l’adozione per le coppie gay è già stata di fatto introdotta in Italia. Non dal parlamento bensì dai soliti giudici, i quali, consci di agire in assenza di norme quando non proprio in barba alla legge, in diversi processi hanno sancito per il «coniuge» di turno il «diritto» di adottare il figlio del partner dello stesso sesso (dicesi stepchild adoption).
Interessante che oggi si uniscano al coro anche la Repubblica e il Fatto quotidiano, giornali capiscuola del giustizialismo italiano, da sempre in prima linea nella battaglia per la democrazia e per «la legalità», che poi sarebbe il rispetto della legge. Titolo del Fatto: «L’adozione gay c’è già. Lo ha deciso il Tribunale». Occhiello: «Le sentenze sui casi di stepchild: tutte favorevoli alle coppie omosessuali». Titolo di Repubblica: «Ma se salta la stepchild saranno i giudici a decidere». Occhiello: «Già diverse le sentenze a favore di coppie gay e presto si pronuncerà la Consulta».
Scrive Gianluca Roselli per il giornale diretto da Marco Travaglio: «Le adozioni gay sono un terreno su cui la giustizia è più avanti della politica. La legge ancora non c’è, ma ci sono sentenze che hanno già fatto giurisprudenza». Ma attenzione soprattutto a quanto aggiunge Maria Novella De Luca su Repubblica: «I giudici minorili hanno già mandato un messaggio chiaro al Parlamento (…). Addirittura, nei casi di maternità surrogata, come è avvenuto pochi giorni fa a Firenze. La sentenza, firmata dal giudice Laura Laera, ha affermato che per il bene del bambino, era giusto che restasse con quella coppia, e con quella «madre sociale», nonostante fosse nato con una pratica vietata all’estero» (qui probabilmente l’espressione giusta sarebbe stata «nato all’estero con una pratica vietata in Italia»).
E per fortuna che, come ripetono a macchinetta gli sponsor politici del ddl Cirinnà, «la stepchild adoption non c’entra niente con l’utero in affitto», che del resto «è già illegale in Italia».
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