E’ sufficiente avere una bella voce che trasmetta un sentimento di pace e serenità, saper strimpellare una chitarra acustica, dichiararsi fan delle icone della “west coast” americana e del bluegrass per essere celebrati dalla stampa specializzata ? Sembra di si, leggendo gli entusiasti peana dei critici più attenti alle novità discografiche, intenti a magnificare il primo disco “ufficiale” di un duo femminile che arriva dalla Svezia. Le First Aid Kit sono due giovanissime interpreti e autrici di The Lion’s Roar, il cd che da qualche mese stanno promuovendo in mezzo mondo, Italia compresa. Il fenomeno comincia un paio d’anni fa quando, con un formidabile passaparola, si afferma il gruppo inglese dei Mumford & Sons, che si rifanno alle atmosfere “campestri”della provincia britannica: suoni aulici che recuperano la tradizione rinascimentale della “perfida Albione”. Il loro album di debutto, Sigh no more, si trova ancora tra i cd più richiesti nel negozio virtuale di Amazon.
A ruota arrivano all’inizio del 2011 gli americani Decemberists con il loro The King is dead che contiene brani tra Cat Stevens e Crosby, Stills & Nash, ai quali dà decisiva impronta la collaborazione di Peter Buck, chitarrista dei R.e.m. Anche per loro grande successo, come per i Fleet Foxes, ottimi creatori di musica levigata, apoteosi dell’acustico, voci sospese in un limbo nebbioso, insomma, più Enya che Neil Young. Ora, da questo mondo musicale così a modo in un tripudio di tuniche “tardo hippy”e chitarra a tracolla, arriva il duo First Aid Kit: a parte qualche brano ben costruito, il disco delle sorelline svedesi è un’interminabile galleria di canzoncine dove si sprecano nenie tendenti al melenso, accompagnate da un uso delle atmosfere acustiche dall’effetto soporifero, lontane parenti della ricerca folk e popolare dei primi Simon & Garfunkel alle voci dei quali, con leggerezza e levigatezza, le cantanti sembrano ispirarsi.
Viene da chiedersi un po’ provocatoriamente: perché questo bisogno di tristezza, di malinconia, di introspezione da parte di questi giovani artisti? Il rischio concreto è che questa musica “anti stress”, rovesciata in quantità industriale, produca alla fine un effetto depressivo, che certamente non capitava con gli acustici degli anni 70. E’ giusto valorizzare il lato riflessivo della popular music, forse in questo momento storico di crisi economica sembra quasi lenitivo, ma non dobbiamo dimenticare che la musica, tutta la buona musica, è soprattutto ritmo, gioia, ballo, coro, passione. E carne.