«Voglio parlare della femminilità, dell’amore, della violenza sulle donne, o delle donne e basta». Valeria Perdonò, giovane e molto ispirata interprete del nostro teatro, dotata di un’onestà coscienziosa di approccio con la realtà che racconta, è autrice, attrice e regista di “Amorosi assassini – facciamo finta di niente, dai…”, spettacolo del 2010, prodotto da Ars Teatro e Spettacolo e tratto dall’omonimo saggio del 2006 (Ed. Laterza), ora in scena al Piccolo Orologio di Reggio Emilia (10 marzo), poi alla Sala Don Gianola di Carugo (11), e, dal 16 al 19, anche al Brancaccino di Roma, per la rassegna “Una stanza tutta per lei”. Un lavoro nato dalla lettura rivelatrice del testo adattato riportante casi di violenza di genere, dove la Perdonò elegge a filo rosso la storia di Francesca Baleani, sopravvissuta al coniuge reo confesso, allora direttore del teatro di Macerata.
Perché ha scelto il caso Baleani per costruire il suo monologo?
Mi ha colpito che l’aggressione si sia consumata in una famiglia culturalmente ed economicamente benestante, lontana da quei margini sociali che l’immaginario comune tende ad associare. Come mi hanno colpito gli eclatanti risvolti giuridici, tra appelli al raptus e ricorsi a perizie. Parto da qui per riflettere sulla donna, sulla discriminazione, sul sessismo nel linguaggio, e lo faccio insieme al musicista Marco Sforza, chiamando anche in causa letterature antiche, poetiche moderne, canzoni (da Aristotele a De Andrè, da Merini a Gaber, ndr). Pongo domande sulle cause, sulle conseguenze, sulle responsabilità (soprattutto femminili) private e pubbliche senza la presunzione di elargire risposte o giudizi: non sono nessuno per darli e non voglio farlo. Sono però una donna di trentaquattro anni che si guarda intorno e vede che oggi, nonostante ci sia più informazione e conoscenza, diamo troppo spesso per scontate quelle libertà faticosamente conquistate dalle nostre madri e nonne (col sostegno, certamente, anche di molti uomini): ci sono dati, statistiche, campagne comunicative, eppure la violenza resta un problema atavico e ancora molto forte. Parlarne è importante, farne ragione d’incontro ancora di più, e il teatro è questo: un incontro dal quale deve nascere un confronto reciproco.
Nello spettacolo c’è umorismo, come si evince già dal sottotitolo. Si può trattare questo tema con ironia?
Per raccontare la sua esperienza, Francesca Baleani usa parole disperate ma piene di lucida ironia. Ironia che, nel percorso di crescita dello spettacolo, mi ha portato a maturare la consapevolezza che questi argomenti possano essere trattati con ironia e autoironia, e che questo è il mio modo di essere e relazionarmi con la realtà, sulla scena e fuori. E non vuol dire essere irriverenti o irrispettosi, ma mantenere un sorriso, nonostante tutto, mettendo tutta me stessa, senza filtri. All’inizio tutto ruotava intorno al caso Baleani, con qualche mio commento pungente; poi ho dato forma alla mia posizione rispetto all’omertà non solo dell’uomo ma soprattuto, e molto più drammaticamente, della donna nei confronti delle donne. Oggi è facile trovare online post e commenti di una brutalità sconvolgente, e lo diventano ancora di più quando a scriverli sono altre donne. E in questo senso i social network con la facilità di creare e vedere pagine che inneggiano alla violenza, giocano un ruolo molto pericoloso: perché inneggiare alla violenza è una forma di violenza, anche senza le botte o la morte.
Che significa parlare delle donne, della violenza, del femminicidio?
Significa fare un atto sociale, civile, oltre che culturale, di denuncia, di riflessione condivisa. Un atto anche politico. Vuol dire smuovere, nel proprio piccolo, con i propri strumenti, coscienze: per me che sono un’attrice, implica mettere a disposizione il mio pensiero, la mia voce, il mio corpo. Agire affinché di questa verità si parli: allora si fa un piccolo atto politico, e io sento, personalmente e professionalmente, di volerlo fare. Dei casi di violenza femminile se ne parla più che in passato, ma spero che chi ascolta sia sempre meno passivo.
Cioè?
La partecipazione, la reazione lascia sempre qualcosa in chi narra e chi ascolta. È una responsabilità educativa (soprattutto a teatro) spesso sottovalutata: perciò voglio portare lo spettacolo anche in scuole, centri sociali e antiviolenza: per creare un dialogo. Comunicare è una cosa che stiamo perdendo: abbiamo sempre meno tempo per parlarci, per conoscerci, in un certo senso. Recentemente ho aggiunto nello spettacolo luoghi comuni da me sentiti direi con sorpresa, che affidano alle vittime concorsi di colpa o ingenuità ottuse. C’è ancora la tendenza al cercare l’attenuante. Tutto ciò ci coinvolge tutti, ogni giorno. Dunque ne parlo, al di là di aspetti tecnici, legali, psicologici o dei singoli casi; e lo farò ancora con altri progetti, perché ho scoperto che più approfondisco questo tema, più sento che è sbagliato e impossibile “fare finta di niente”. Nessuna donna e nessun uomo dovrebbe.