La morale di Tonino Martedì scorso (31 agosto) il Corriere della Sera pubblicava una lettera di Antonio Di Pietro in cui l’ex pm interveniva nel dibattito sulla fine di Mani pulite commentando la proposta, lanciata dalle colonne dell’Unità dal presidente della Commissione Giustizia Anna Finocchiaro, di un “patteggiamento straordinario per Tangentopoli”. “Bisogna chiedersi – scriveva Di Pietro – perché la ‘sinistra che conta’ senta tanto il bisogno di chiudere la stagione di Tangentopoli”. Non per paura di indagini sul proprio conto, rispondeva il senatore dei democratici, poiché gli eventuali reati in questione sarebbero ormai prossimi alla prescrizione e quindi non perseguibili. Il problema, semmai, è politico: Silvio Berlusconi. “A breve – argomentava Di Pietro – si aggirerà nelle stanze della politica italiana un “cerino acceso’”, quello delle sentenze definitive a carico di Berlusconi, il quale, se risultasse innocente potrebbe dire che “è stato una vittima innocente, un agnello sacrificale di una sinistra forcaiola e becera”; se risultasse colpevole, griderebbe “alla persecuzione politica, che in questo modo si vuol far tacere la voce dell’opposizione”. Entrambi i casi, concludeva Di Pietro, indurrebbero la sinistra a giungere a un patteggiamento per non subire contraccolpi elettorali.
Che la stagione di Mani pulite fosse stata una sorta di regolamento di conti politici condotto sul terreno giudiziario, era ormai chiaro anche senza l’intervento di un testimone d’eccezione come Di Pietro. Non solo gli italiani, nel loro piccolo, hanno attribuito a Berlusconi tre milioni di preferenze, ma perfino dei dipietristi assatanati come quelli dell’Espresso per bocca di Gianpaolo Pansa mandano a dire che “ne abbiamo abbastanza di Tonino il Burino”. Semmai tutta questa storia conferma l’urgenza di chiudere una storia ridotta a bandierina moralistica (di dubbia morale e provenienza) da sventolare come un anatema ad ogni tentativo di riportare il confronto dalle aule di tribunale a quelle parlamentari, dalla politica delle manette a quella dei problemi reali. E se l’hanno capito anche quelli dell’Espresso…
Religioni di Stato In settimana il vescovo di Como Alessandro Maggiolini ha osservato che, nel momento in cui i musulmani fossero una presenza sociale significativa nel nostro paese, diventerebbe necessario insegnare anche il Corano a scuola, rivedere le norme sul lavoro per rispettare le pause di preghiera dei musulmani e quelle sul matrimonio in materia di poligamia. “L’Italia, l’Europa, predisponendosi a misurarsi con l’Islam avrà un sussulto di dignità nel recupero e nel rinnovamento della propria tradizione culturale o sarà fatale che essa soccomba rispetto alla propria missione civilizzatrice”, ha concluso Maggiolini.
La provocazione culturale del vescovo di Como, si scontra con le dichiarazioni del ministro Berlinguer, curiosamente diffuse nello stesso giorno. Berlinguer fa sapere di voler aprire un’indagine sull’ora di religione “per sapere come e che cosa si insegna”, “per capire che cosa succede lì dentro”. Chissà… “Oggi come oggi si tratta di un insegnamento molto legato al docente”, perciò ha lasciato intendere Berlinguer, sarebbe il caso di istituire programmi statali come per tutte le altre materie. Perché una società possa confrontarsi e accogliere culture diverse è necessario che, nel rispetto delle tradizioni altrui, sia consapevole delle proprie. Ma in una tale concezione statalista della cultura e della società l’unico rapporto possibile è quello definito da norme e recinti. In ultima analisi dallo scontro.
Sindacati sconfederati Giovedì 2 settembre in un’intervista al quotidiano La Repubblica il segretario della Cgil Sergio Cofferati la sua proposta di riforma delle pensioni. Pur ribadendo la validità della riforma Dini, Cofferati ha ammesso l’esistenza del problema di una “gobba” nel sistema pensionistico che si creerà a partire dal 2005 e la cui dimensione dipenderà dal Pil, dal numero di persone che andranno in pensione e dall’occupazione. “Credo – ha spiegato il leader della Cgil – che la soluzione tecnicamente più efficace e socialmente più equa sia l’estensione pro rata del metodo di calcolo contributivo”. Cioè il calcolo della pensione non più sulla base dello stipendio percepito, ma dei contributi versati.
Qualcosa è successo. Dopo aver per mesi respinto ogni ipotesi di riforma del sistema pensionistico anche il “Cinese”, messo alle strette dalla realtà (e forse da qualche politico di riferimento) ha ammesso che qualcosa s’ha da fare. Puntuale, il segretario della Cisl Sergio D’Antoni ha risposto che “se questa è la posizione della Cgil, si rompe l’unità sindacale”. D’Antoni aveva avvertito che di pensioni non si doveva parlare fino al 2001 e che se qualcuno ci provava era pronto a “rompere”. Detto, fatto, a quanto pare. Battaglie di retroguardia, degli ultimi giapponesi che restano a far la guardia al bidone. Del resto, con tutto il rispetto per la gloriosa unità sindacale, quando ci si ostina a combattere la realtà, è inevitabile andarsi a schiantare. Ci auguriamo solo che la raccolta dei cocci non tocchi, al solito, al mondo reale di chi lavora e produce.
I miracoli di sant’Istat…
In settimana, dopo l’impennata del prezzo della benzina, sono stati annunciati rincari per energia elettrica (+3,7%), metano (+4,4%), acqua (gli aumenti medi saranno del 4-5%, ma nelle città, come Milano o Genova, dove fino ad oggi costava meno di 400 lire al metro cubo il rincaro sarà maggiore con punte massime che potrebbero arrivare al 17%), servizi di fognatura e depurazione (+7,5%), ferrovie (+3%).
A tutto ciò si sommano gli aumenti di assicurazioni, autostrade, medicine, libri scolastici… Tutti beni secondari e di lusso. Per fortuna che, come ha già osservato Giulio Tremonti al Meeting, abbiamo l’Istat, capace ogni volta che è chiamata in causa, di rinnovare il miracolo: tutto sale, ma l’inflazione è costante. E, a volte, perfino scende.
quelli di Aznar e quelli invocati da Visco La presenza (sabato 4 settembre) del premier spagnolo José Maria Aznar al convegno di Cernobbio organizzato dallo Studio Ambrosetti ha sollevato la polemica sulla reale portata dei risultati economici ottenuti dalla politica liberista del premier popolare spagnolo che in 2 anni, dal 1997 al 98 ha portato il Pil dal 3,5 al 3,8% (in Italia è passato dall’1,5 all’1,4%), l’inflazione del 2,0 all’1,8% (in Italia dall’1,7 all’1,8%), la disoccupazione dal 20,8 al 18,8% (in Italia dall’11,7 all’11,8%) e la bilancia commerciale estera da 13,3 a 20 miliardi di dollari (in Italia da 51.300 a 46.649 miliaredi di lire). Ai commenti favorevoli di Silvio Berlusconi sono seguiti quelli perplessi del ministro del Lavoro Cesare Salvi (“la loro disoccupazione, a due cifre, è ancora superiore alla nostra”) e quelli del lministro delle Finanze Vincesco Visco (“Non creiamo il mito spagnolo”).
A parte che anche la disoccupazione italiana è a due cifre, confrontando i ritmi di crescita italiani e spagnoli c’è da pensare che l’affermazione di Salvi non varrà ancora a lungo. Quanto a Visco, il ministro delle Finanze ha osservato che non crede che i successi spagnoli siano dovuti alla diminuzione fiscale. E poi, ha aggiunto: “Anche il nostro governo vuole ridurre le tasse. Se a fine anno raggiungeremo obiettivi di gettito compatibili con una crescita del 2-2,5% invece che all’1% allora avremo, solo per quest’anno, un aumento di fatto della pressione fiscale e dovremo diminuire le tasse”. Considerando che i più ottimisti parlano di una crescita, appunto, all’1,2% resta da chiarire se l’uscita di Visco sia da intendersi come un’inaspettata dimostrazione di umorismo o un invito a tutti gli italiani a impetrare al cielo la grazia di una miracolosa manna fiscale.