Sono tutti d’accordo che l’austerità è la cura sbagliata, tutti tranne la Germania. Eppure si continua a fare come vuole la Germania. È questa la paradossale situazione in cui l’Unione Europea si trova alla vigilia del sesto quadrimestre consecutivo di contrazione del suo Pil, con il tasso di disoccupazione che ha toccato il suo record storico al 12 per cento della manodopera attiva dopo sedici mesi consecutivi di tagli del personale nelle imprese di tutta Europa e dopo ventuno mesi consecutivi di contrazione del Purchasing Managers Index, l’Indice di gestione acquisti che segnala lo stato di salute del settore manifatturiero. A Berlino di tutto ciò non importa proprio niente: la Germania è l’unico paese dell’eurozona che ha registrato un attivo di bilancio nel 2012 (+0,2 per cento), e loro sono contenti così.
Lasciamo pure da parte primi ministri e ministri dell’Economia e delle Finanze dei paesi dell’euro maggiormente a disagio coi programmi di aggiustamento strutturale imposti da Bruxelles e consideriamo solo i soggetti “terzi”. Ad aprire il fuoco di fila delle critiche all’austerità depressiva delle politiche fiscali dell’eurozona è stato il Fondo monetario internazionale (Fmi) a metà di aprile, poi sono seguiti l’Istituto Bruegel (di cui sono membri tutti i paesi dell’Unione Europea e di cui è stato presidente anche Mario Monti), il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, il presidente del più grande fondo di investimenti in obbligazioni del mondo (Bill Gross della californiana Pimco) e, a leggerlo con obiettività, anche il comunicato stampa di Eurostat del 22 aprile sui deficit di bilancio dei paesi dell’eurozona e di quelli della Unione a 27.
Berlino contro tutti
Scorrendo i numeri di Eurostat infatti si scopre che in tutti i paesi che hanno chiesto aiuti agli altri membri dell’Unione, concordato piani di salvataggio europei o deciso autonomamente misure di austerità per affrontare crisi debitorie (è il caso dell’Italia) si danno una o entrambe delle seguenti negatività: o il deficit di bilancio è ben al di sopra del 3 per cento fissato in sede europea, o il rapporto tra debito pubblico e Pil si è deteriorato dopo la decisione delle misure di austerità. In Italia il deficit di bilancio nel 2012 si è fermato al 3 per cento, ma il rapporto debito/Pil si è degradato fra il 2010 e il 2012 passando dal 119,3 al 127 per cento del Pil. Nei paesi Pigs la palma del deficit più alto nel 2012 va alla Spagna (-10,6 per cento), seguita da Grecia (-10), Irlanda (-7,6) e Portogallo (-6,4). In tutti e quattro i paesi sopra elencati il rapporto tra debito pubblico e Pil nel 2012 risultava, come in Italia, peggiorato rispetto al 2010: in Spagna è passato dal 61,5 all’84,2 per cento del Pil, in Grecia dal 148,3 al 156,9 (ma si è abbassato rispetto al 2011), in Irlanda dal 92,1 al 117,6 e in Portogallo dal 94 al 123,6 per cento.
Credete che a Berlino importi qualcosa dell’evidente impasse della cura dell’austerità nei paesi mediterranei (e celtici) dell’eurozona? Proprio per niente. Lunedì della settimana scorsa Barroso dichiarava che l’austerità fiscale nei paesi afflitti da crisi del debito era necessaria, ma che «mentre questa politica è fondamentalmente giusta, penso che abbia raggiunto i suoi limiti sotto molti aspetti. Per avere successo una politica deve non solo essere appropriata, ma avere anche un minimo di sostegno politico e sociale». È bastato questo perché il giorno dopo il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ammonisse: «Siamo convinti che se rinunciamo alle politiche di consolidamento di bilancio, se ricadiamo nelle vecchie politiche fatte di accumulazione di debiti, allora alimenteremo la disoccupazione di massa per molti anni in Europa».
Quando a metà aprile il Fmi ha fatto notare che se concentravano troppo l’attenzione sugli obiettivi di riduzione del deficit di bilancio annuale i governi dell’eurozona rischiavano di aggravare la recessione («L’aggiustamento fiscale dovrebbe procedere gradualmente – si legge nel documento del Fondo – e fondarsi su misure che limitano i danni alla domanda nel breve termine»), il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble ha pensato bene di autonominarsi portavoce dei paesi europei e di commentare con sufficienza: «Nessuno in Europa vede questa contraddizione fra una politica fiscale di consolidamento e la crescita». La stessa sufficienza con cui ha liquidato anche la proposta di Enrico Letta di rinegoziare il rigore e rilanciare la crescita a livello europeo: «Scaricare sugli altri i propri problemi è comprensibile umanamente, ma è una sciocchezza», ha replicato sarcasticamente Schäuble. «Molti paesi europei fanno grandi progressi, ma non si lamentano ogni giorno e non pretendono sempre dagli altri la soluzione ai loro problemi».
Nel governo tedesco la pensano tutti come lui, come si può dedurre dal fatto che nella stessa settimana dell’intervento del Fmi il gabinetto dei ministri ha approvato nuovi tagli di spesa per essere certi di conseguire un attivo di bilancio anche quest’anno e il prossimo, e per inseguire l’obiettivo di ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil dall’80,5 per cento attuale al 69 per cento nel 2017.
L’erroraccio dei primi della classe
Non ha scosso il governo tedesco dalle sue granitiche certezze nemmeno la clamorosa notizia che la dissertazione di un dottorando dell’Università Amherst del Massachusetts, approvata dai professori Michael Ash e Robert Pollin, smentiva le tesi del più famoso e politicamente sfruttato studio del decennio: quello intitolato “Growth in a Time of Debt” apparso nel 2010 sull’autorevole American Economic Review, opera di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, due studiosi dell’università di Harvard giunti alla conclusione che quando il rapporto fra il debito pubblico e il Pil nazionale supera il 90 per cento, il secondo tende a non aumentare più o a retrocedere dello 0,1 per cento all’anno. La loro analisi è diventata subito la bandiera di governi e forze politiche – in Germania, negli Stati Uniti e nel Regno Unito – impegnati a vendere l’idea che la ripresa economica deve essere preceduta da una forte riduzione dell’indebitamento pubblico, e dunque da politiche fiscali rigorose.
Persino il commissario per l’Economia della Commissione europea Olli Rehn, prima di concedere, giovedì scorso, una qualche apertura alle richieste di allentare le politiche di rigore, mostrò di averla fatta propria in un discorso tenuto nel 2011 al Council on Foreign relations americano, nel corso del quale aveva affermato: «È ampiamente riconosciuto, sulla base di seria ricerca scientifica, che quando i livelli del debito pubblico salgono oltre il 90 per cento tendono a presentare una dinamica economica negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni». L’equipe del Massachusetts ha rilevato seri problemi metodologici in quella ricerca: l’esclusione selettiva di alcuni dati, uno schema di bilanciamento dei dati insolito e soprattutto un errore di codice nel foglio di calcolo Microsoft Excel utilizzato. Alla fine la media della crescita dei paesi oltre la fatidica soglia del 90 per cento non era stagnante o negativa, ma pari al 2,2 per cento annuo, contro il 3,2 per cento dei paesi a indebitamento moderato: tutta un’altra faccenda.
D’altra parte è davvero strano che per quasi tre anni le tesi di Reinhart e Rogoff abbiano dominato: poche nozioni di storia dell’economia sarebbero state sufficienti a ricordare che dopo la Seconda guerra mondiale il debito pubblico degli Stati Uniti e del Regno Unito si è collocato ben sopra al 100 per cento (nel caso dell’Inghilterra addirittura sopra il 200 per cento nel 1945), eppure i due paesi sono rientrati ben al di sotto di quei livelli non con l’austerità ma grazie a importanti tassi di crescita economica, e che negli ultimi vent’anni Belgio, Italia e Giappone, paesi il cui debito pubblico superava e tuttora supera il 90 per cento, sono cresciuti a tassi non eccezionali, ma certamente non negativi (tranne che per l’Italia nell’ultimo biennio).
Le prime conversioni
In buona sostanza, nessuno può dire se è l’alto indebitamento che causa una bassa o negativa crescita, oppure se è una bassa o negativa crescita che produce indebitamento. Una teoria sul tasso ottimale di indebitamento pubblico attualmente non esiste, quella di Reinhart e Rogoff era puramente empirica e si è rivelata sbagliata. Nel frattempo assistiamo a un certo numero di conversioni sulla via di Damasco. L’Fmi, che per decenni ha sostenuto le ragioni dei piani di austerità e di aggiustamento strutturale imposti a mezzo mondo per uscire da crisi finanziarie e debitorie, adesso invita Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea a rallentare il passo delle misure di austerità, e invita i paesi come la Germania che hanno un forte surplus commerciale (Berlino è arrivata a un fenomenale 7 per cento) a spendere di più per stimolare la ripresa nei suoi vicini in difficoltà. Bill Gross, che due anni fa definiva il debito pubblico britannico «un letto di nitroglicerina» e invitava a non investire in quello statunitense giudicandolo rischioso, adesso dice: «Il Regno Unito e quasi tutta l’Europa hanno sbagliato a credere che l’austerità, l’austerità fiscale nel breve termine, fosse la strada per produrre vera crescita. Non lo è. Bisogna spendere i quattrini».
E persino l’Istituto Bruegel, mai critico con le decisioni prese in sede europea, nel suo ultimo rapporto scrive: «La sequenza dell’azione politica è importante. Senza credito, investimenti e crescita, è probabile che qualunque riforma strutturale sia vittima del rigetto popolare. Se la riduzione della spesa pubblica non produrrà risultati, il sostegno a questa politica svanirà». Il Bruegel riconosce anche i disallineamenti valutari che la politica dell’euro ha causato: «Il tasso di cambio reale di tutti i membri meridionali dell’eurozona è diventato sopravvalutato, mentre è sottovalutato in gran parte dei membri settentrionali».
Finora tutte queste conversioni hanno portato a un unico allentamento dell’ortodossia: il dogma del 3 per cento di deficit massimo annuo tollerabile è stato sospeso, le tempistiche di rientro dei deficit dei paesi in crisi allungate. Alla Spagna sono stati concessi da Bruxelles due anni in più per rientrare sotto il tetto del 3 per cento, lo sfondamento di quest’anno previsto al 6,5 per cento sarà tollerato nonostante si fosse concordato un 4,5 per cento. Anche a Francia e Portogallo è stato concesso un anno in più. I mercati sono tornati a comprare titoli di Stato dell’eurozona a tassi un po’ più bassi delle aste scorse in mancanza di meglio, visto il rallentamento dell’economia cinese e degli altri paesi Brics. Ma il peggio non è passato: se Berlino non cambia linea, l’uragano è solo rinviato.