Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Mentre il mio compagno di carestia continua a ripetermi che non ho abbastanza spazio su iCloud per eseguire il backup del mio iPhone, sono stato così completamente affascinato dalla start up rosa di un mio caro amico (cacciato dalla politica perché era troppo bravo) che mi piace rendergli qui pubblico omaggio. In sostanza, partendo dalla convinzione imprenditoriale (deal maker) che la sensibilità e il gusto della cliente italiana sono il vero banco di prova per ogni prodotto di successo, sia esso italiano o nepalese, il milanesissimo Mario Sala si è inventato una sorta di agenzia itinerante dell’intelligenza femminile (italiancustomerintelligence.it). Vendi cosmetici, capi di abbigliamento, protesi facciali, contenitori per le urine, pellicce artificiali per vegani o ossibuchi per molossi di nobildonne argentine? Hai bisogno di testarlo in Italia, dove “l’eterno femminino” che, secondo l’infallibile verso di Goethe, «ci attira verso l’alto», ha il senso più fino e squisito che c’è al mondo per valutare se il prodotto funzionerà o no. Poi, dice il fenomeno della comunicazione autocratica Riccardo Ruggeri, che «filosoficamente, la prima idea del Ceo capitalism consiste nel mettere al centro il consumatore e non più il lavoro, cioè si riducono il lavoratore e il capitale in funzione del consumatore». Non so se è così. Ma registro che i brand del Ceo, inspecie digitali, quelli, tanto per intenderci, che stanno saturando l’iCloud del neurone collettivo, vedi Facebook, il cui valore in un anno è cresciuto più di Apple e di Microsoft, 48 per cento, dando mazzate a Coca Cola (a conferma che la “peste emozionale” è il motore del nuovo capitalismo) sono le nuove chiese del secondo millennio. Appartenere alle quali, per gli adepti-consumatori, sembra contare più della sostanza di vacuità dei prodotti acquistati.
Ecco in questo nuovo universo e paradigma capitalistico si capisce che il voto democratico è diventato anch’esso un affare da Ceo. Così, mentre l’unico amministratore delegato degli interessi popolari che abbiamo in Italia rimane attestato sul brand dei brand, Forza Italia, la spavalda bulimia di Renzi arriva a cannibalizzare l’intelligence raoulcasadeiana di Romagna mia. Mentre il terzo brand stellato si trasforma in favola di Biancaneve («e se fallisco vado a fare il cenerentolo lavapiatti a Bruxelles»). Con tanti auguri ai sette nani.
La favola scritta da papà, il Grillo che fa e disfa, a seconda con quale piede si alza il mattino, riproponendo di nuovo una finta distanza critica dal suo pupazzetto. E di nuovo incautamente prendendosela con il Giornalista Collettivo. Così, per marchiana ingratitudine al circle tipografico &online, che portandolo in palmo di pagina e di ruota di pavone nuovista ha contribuito decisamente a installare Grillo nella posa di ducetto che è, e del più talentuoso giullarismo sfascista che c’è (non a caso Beppe Grillo si imparentò con Dario Fo e il Nobel del can che abbaia fu il santino della borghesia patinata). Ma insomma, dopo i bei tempi dei “vaffa” elogiati dal tafazzismo mediatico-giudiziario – sfasciare tutto per non cambiare niente – ecco che il teatrante (Molière, L’avaro) un tempo acclamato come il Robin Hood della scena italiana perfino dal Corriere della Sera, si ritrova affamato di industria del consenso. E perciò, con un «vi mangerei soltanto per il gusto di vomitarvi» (e questo dovrebbe suggerire il quadretto del mondo Cinquestelle carino e felice) piuttosto che regalando euri per rimarcare l’accusa di “pennivendoli”, Grillo racconta dei giornalisti quello che Grillo non è, non sarebbe mai stato, e purtroppo invece egli è ed è stato, fosse chiamato a uno sketch di promozione delle automobili tedesche o sui pinnacoli del giustizialismo più corrivo. Ovvero, Grillo, un gran bel magistero di opportunismi&markette.
Tafazzi a Berlino
D’altronde guardatelo, paffutello e cotonato qual è, mai si sognerebbe di lasciarsi andare al disordine popolare che un bel giorno si ritrova senza una messa in piega, poco poco senza riccioli d’argento ricamati come si deve. Ecco il nuovo di Grillo: un arruffa populismo che si tiene la nomina oligarchica di un trentenne napoletano di buona famiglia promosso capo in doppiopetto a caccia della poltrona di Palazzo Chigi. Ruttini per tutti. E avanti col finto movimentista dell’albero di Fico piantato nell’ossigenatissimo bosco Cinquestelle. Un giochino delle parti che nemmeno i ragazzi della via Pál. Ma non staremo qui a farla lunga. Anche perché, dopo che la Germania si è arruffata con questa Afd, che non vuole saperne di solidarietà con nessuno, tranne che tra tedeschi, penso sarà assai difficile tenere su un piatto della bilancia politica italiana un gran comico del tafazzismo e pretendere, dall’altro, che l’Italia abbia un peso serio (e contenda cose politiche serie) a Berlino.
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