Caro direttore, dopo aver tentato di spiegare perché la crisi economica dipende dal debito privato e perché secondo me gli esperti sapevano che sarebbe andato in crisi un sistema a moneta unica costruito per una unione di stati che non sono un’Area Valutaria Ottimale, ora vengo al terzo, decisivo punto. Decisivo perché tutto questo sistema si basa sull’ipotesi che il libero mercato, nonostante le sue imperfezioni, sia sostanzialmente un sistema efficiente nel collocare le risorse e nel distribuire la ricchezza.
Terzo punto: il libero mercato non funziona
«Il capitalismo è la stupefacente credenza che gli uomini peggiori farebbero le cose peggiori per il bene di tutti». Così apostrofava John Maynard Keynes. Ma lo diceva circa ottant’anni fa. Perché già a quel tempo era ovvio che il “lasciar fare” tipico del capitalismo liberista era stato la causa principale della Grande Depressione del ’29. E a conferma di questo, è del 1899 il libro scritto da Alexander Del Mar dal titolo Storia dei crimini monetari. Capite cosa intendo dire? Già nel 1899 era possibile scrivere una storia dei crimini monetari.
Il famoso gioco del Monopoli è un esempio interessante di libero mercato. Interessante perché tutti i giocatori partono nelle medesime condizioni e perché nel gioco si verifica una delle condizioni fondamentali per la teoria del funzionamento del mercato, quella per la quale tutti gli attori del mercato hanno una completa e uguale conoscenza della situazione, in base alla quale prenderanno le decisioni più razionali. Come noto, il gioco prevede un solo vincitore.
Ma per un momento, cerchiamo di analizzare il gioco secondo i princìpi dell’efficienza e del bene comune, poi faremo un confronto con le principali differenze con l’economia reale. A ben pensarci, con il gioco del Monopoli c’è un solo vincitore perché tutti gli altri falliscono. Non c’è un’altra soluzione. In altre parole, il gioco del Monopoli è un gioco a fallimento garantito, a parte uno. Quindi, in quelle condizioni, è sostanzialmente falso che il successo economico di uno comporti un maggiore benessere per tutti. Questo dipende da una semplice considerazione: se la quantità di moneta in circolazione rimane inalterata, la maggiore ricchezza di uno può accadere solo con la concomitante perdita di altri.
Ora vediamo le principali differenze con l’economia reale. Anzitutto, nell’economia reale non c’è mai stato un momento nel quale avviene una distribuzione gratuita di moneta, uguale per tutti. Inoltre, la distribuzione di moneta può avvenire, ma solo con l’attivazione di un debito. Inoltre, nel gioco del monopoli c’è un leggero aumento di moneta, poiché ad ogni passaggio dal “Via” ogni giocatore riceve dalla banca una certa quantità di denaro. Al contrario, nell’economia reale, poiché la distribuzione di moneta avviene con un debito (dello Stato o di chi la chiede in prestito), al passare del tempo occorre pagare almeno gli interessi (lo Stato) oppure anche una certa quantità di capitale. Quindi si ha una continua sottrazione di moneta dall’economia reale, che porta più rapidamente al fallimento chi non riesce ad arricchirsi.
Tutta questa dinamica, incomprensibile secondo le principali teorie classiche e pure secondo quelle monetariste, si comprende solo alla luce delle scoperte scientifiche di Mandelbrot, di cui ho parlato in un altro articolo. La natura frattale dell’economia porta ad una funzione di distribuzione che si chiama “Legge di Potenza”, una distribuzione che favorisce gli eccessi. Quindi è colpa della matematica (e del libero mercato) non di Renzi, Berlusconi o della corruzione. La politica ha indubbiamente le sue belle responsabilità, ma la maggiore è quella di aver aderito a questa moneta unica che fin dalla nascita ha enormemente potenziato le capacità distruttive del libero mercato.
E la capacità distruttiva del libero mercato si vede proprio in questo: nella scelta se sostenere un’opera che costituisce un bene pubblico oppure lasciar fare al libero mercato, prevale sempre quest’ultimo.
Non sono statalista
Vengo accusato di essere una sorta di statalista, di non volere l’iniziativa privata, magari di non dare spazio al principio di sussidiarietà (così ben applicato in Lombardia, per esempio). Evidentemente non è chiaro, a chi fa questi commenti, che siamo in una situazione del tutto eccezionale, nella quale lo Stato ha ceduto fin troppo ed ora è necessario che riprenda lo spazio che gli compete.
Per poter applicare il principio di sussidiarietà è necessario non solo l’iniziativa dei privati, ma pure la presenza di uno Stato che possa intervenire. Questo, però, non avviene più (vogliamo chiedere informazioni ai terremotati dell’Emilia?). Lo dico anche perché il principio di sussidiarietà mi sta veramente a cuore: ho scritto oltre 150 articoli per ilsussidiario.net, e sicuramente non si può affermare che la linea di quel sito la faccio io, ma qualcosa di grave deve essere avvenuto in questi anni in Italia, se pure un recente editoriale di quella testata richiede a gran voce “Un nuovo ruolo per lo Stato”.
Così scrive Fernando De Haro, autore di quel pezzo: «Negli anni immediatamente precedenti e successivi alla caduta del comunismo, sembrava opportuno utilizzare l’espressione “più società meno stato” per difendere il protagonismo dei corpi intermedi. Era una formula che sintetizzava il principio di sussidiaretà, nato con la Dottrina Sociale della Chiesa… Da 30 anni è iniziata la guerra contro un eccesso di inflazione, contro il forte intervento dello Stato, contro il potere smisurato dei sindacati… La religione comunista è stata sostituita dal sogno dei mercati efficienti… E il mostro è cresciuto. E si è sviluppato un sistema finanziario capace di divorare l’economia reale dall’interno… Occorre più Stato perché ci sia più società…».
E invece cosa sta accadendo? Qual è il ritornello incalzante delle istituzioni? Meno Stato e più Europa (come se questa fosse più vicina ai cittadini). Lo ha detto pure il presidente Mattarella.
Conseguenza: la catastrofe annunciata
Per la precisione, c’è un punto sul quale non sono d’accordo con De Haro. Quando afferma che: «La frase pronunciata da Draghi il 26 luglio 2012 (“La Bce è pronta a fare qualsiasi cosa per preservare l’Euro e credetemi, sarà abbastanza”) ci ha salvato dall’abisso». No, ci ha preparato un abisso ancora più profondo. Secondo il Fmi le banche europee hanno «livelli elevati» di crediti deteriorati: sono 1.000 miliardi di euro, il 9 per cento del Pil dell’Unione Europea, alla fine del 2014, più del doppio del 2009; tali livelli sono particolarmente elevati nel sud dell’area euro.
Elevati livelli di crediti deteriorati frenano la crescita. Ma il vero problema è che questi 1.000 miliardi di euro sono perdite da dover calcolare nei bilanci delle banche europee, ed è una somma impossibile da coprire con gli accantonamenti. Quindi, sotto l’intero sistema bancario della zona euro è scavata una voragine gigantesca che prima o poi lo inghiottirà. Per evitare il collasso, la Bce sta pompando 60 miliardi di euro al mese nel sistema bancario. Ma pure quello è nuovo debito.
Come la storia ha già insegnato numerose volte, l’eccesso di debito privato porterà alla distruzione economica e finanziaria delle nazioni e dei popoli. Come è successo, per esempio, negli Stati Uniti nel 1929. Uscirono da quella crisi solo con la piena occupazione, grazie alla guerra, finanziata in deficit dallo Stato.
Foto banca Atene da Shutterstock