Caro direttore, come già accennato in un articolo precedente, per comprendere meglio la crisi attuale non è sufficiente una fotografia dettagliata del presente (tra l’altro in continuo cambiamento) ma invece è essenziale cogliere lo svolgimento di questa crisi, rivedere il film di questa storia. Però prima di partire in questa lettura, occorre prendere atto di alcune certezze, di alcuni punti fermi. Vediamo quelli che io ritengo i tre principali, poiché su questi è particolarmente evidente una campagna mediatica contraria, tesa a impedire la comprensione delle reali cause della crisi.
Primo punto: il debito privato ha causato la crisi
Il primo di questi, contrastato con veemenza da alcuni miei commentatori, è il fatto che la crisi è dovuta ad un eccesso di indebitamento privato. Questa è una semplice verità lampante, affermata ormai da economisti di tutte le tendenze e resa limpida dalla schiacciante sobrietà dei numeri. In alcuni stati, negli otto anni prima del 2007, mentre il debito pubblico calava a doppia cifra, il debito privato aumentava a doppia cifra. Lo ha riconosciuto pure il vicepresidente della Bce Vitor Constancio nel 2013 in un intervento a una conferenza presso la Bank of Greece.
Lo ha riconosciuto pure il celebre economista Francesco Giavazzi in un articolo recente (disponibile anche in una traduzione italiana). Giavazzi è il campione della tesi secondo cui l’austerità porta alla crescita, per la quale culturalmente ha tutto il mio disprezzo; ma in questo caso le sue considerazioni sono inoppugnabili e documentate.
Conseguenza: il debito pubblico non c’entra
La prima, enorme, conseguenza rispetto alla narrativa oggi dominante sulla crisi è che il debito pubblico non c’entra un bel niente e quindi tutti gli sforzi per migliorare la macchina statale non sortiranno alcun effetto sostanziale rispetto alla dimensione spaventosa della crisi. Quindi anche tutto il tam tam mediatico contro gli sprechi dello Stato e della politica è una menzogna gigantesca.
Cerchiamo di guardare in faccia alla realtà. Abbiamo avuto il governo Berlusconi e il debito è aumentato, poi Prodi (aumentato) poi ancora Berlusconi (aumentato) poi Monti (aumentato) poi Letta (aumentato); ora infine Renzi, e il debito aumenta.
Si vogliono fare riforme per migliorare l’efficienza dello Stato? Bene, chi non è d’accordo? Ma con il debito e l’impagabilità degli interessi le riforme non c’entrano un fico secco. Si vogliono tagliare gli sprechi? Bene. Si vuole dare la caccia ai corrotti e agli evasori? Benissimo. Ma col debito non c’entrano nulla. Questa è la realtà pura e semplice. Se, per esempio, avviene una corruzione, sarà un corrotto a comprarsi la macchina di lusso invece dell’imprenditore onesto. Ma dal punto di vista del Pil, nulla cambia: sempre una macchina di lusso venduta. Quindi facciamo pure la lotta alla corruzione, ma per il debito occorreranno altri strumenti. La lotta alla corruzione è necessaria per la salute della società e la difesa dei più deboli, ma non per il debito.
Non ci vuole molto a capirlo. Il debito segue una regola matematica: dopo tot tempo scattano gli interessi. L’economia reale (famiglie e imprese) può fare tutto (anche lavorare il triplo e non dormire la notte) ma non può per legge stampare moneta. Per quanto si lavori, aumenteranno i prodotti ma non le banconote in circolazione. Oppure sì, possono aumentarle prendendo un prestito: quindi aumentando il debito complessivo.
Le banconote sono entrate in circolazione in cambio di titoli di Stato. Si suppone che sia uno scambio alla pari (tot moneta, tot titoli) ma non è così. I titoli hanno un rendimento e quindi crescono di valore nel tempo. La moneta invece no, resta sempre la stessa. Per quanto possa circolare, non aumenta di valore. Circolando più in fretta, grazie alla tecnologia e all’efficienza del sistema produttivo e al miglioramento della burocrazia, avremo un Pil maggiore. Ma la moneta come quantità non sarà aumentata. Alla scadenza del titolo, questo avrà un valore maggiore, ma la quantità di moneta sarà rimasta la stessa: il titolo è impagabile nel suo nuovo valore, quindi non resta che fare nuovo debito.
Non dipende da Berlusconi o da Renzi o dalla corruzione. Il debito aumenta e basta.
O la moneta o il lavoro
A riprova di quanto detto, basta andare a vedere la crescita del debito degli altri stati, magari quelli considerati efficienti o con minore tasso di corruzione. Si può vedere che la dinamica di crescita del debito è sempre una curva esponenziale. Questo dipende dal semplice fatto che l’interesse composto (cioè l’interesse che non viene pagato e che si somma al debito e sarà soggetto ai nuovi interessi) ha una dinamica di crescita esponenziale. Può darsi che un singolo anno si riesca a pagare gli interessi, ma si tratterà di risorse monetarie sottratte all’economia, che ne verrà immediatamente a soffrire. Risultato: il Pil calerà, mancheranno i soldi e il debito riprenderà a salire. Non c’è nulla da fare, se non si ha la proprietà della moneta.
Per questo e solo per questo ho citato l’Argentina. Non perché quello sia improvvisamente il paradiso terrestre (e non mi interessa nessun processo di beatificazione dell’attuale presidente Christina Kirchner), ma perché, chiunque sia al potere, una spettacolare riduzione del debito pubblico come quello attuato in questi anni, dal 120 per cento del 2004 al 41 per cento del 2012, è possibile solo con la proprietà della moneta.
So benissimo che attualmente il paese ha grossi problemi, ma quei problemi mi pare che diano ancora più peso alla necessità della valuta nazionale. Infatti l’Argentina vive ora nel pieno della tempesta valutaria che sta svalutando la sua moneta e ha come riflesso (non scontato, ma oggettivo in questo caso) l’aumento dell’inflazione. Però l’inflazione ha il merito di contrastare l’accumulo di capitali e favorire chi lavora. Per questo il tasso di disoccupazione, nonostante le difficoltà, è sotto il 7 per cento.
L’alternativa è precisamente quella che abbiamo sotto gli occhi: se non si svaluta la moneta, siccome la moneta serve a pagare il lavoro, la flessibilità richiesta dal libero mercato si sposterà sul lavoro. Quindi si avrà la disoccupazione. Proprio quella che abbiamo noi italiani e che è tanto diffusa in Europa.
Ora io mi domando: cosa è civile e cristiano? Quando un bene indispensabile viene a mancare, è meglio che tutti possano usufruirne, anche se in maniera minore, o piuttosto che diventi un privilegio per alcuni e un miraggio per altri? Non sarebbe meglio “lavorare poco e lavorare tutti” anziché far diventare il lavoro un privilegio di pochi (fortunati o raccomandati)?
Ecco la differenza più importante, da un punto di vista sociale, della sovranità monetaria. Se si stampa la moneta in continuazione e non si procede a una continua, moderata e costante svalutazione, in un sistema in cui la moneta retribuisce il lavoro vuol dire che il valore del lavoro viene considerato più importante del possesso della moneta. Ovviamente occorrerà indicizzare gli stipendi alla svalutazione, ma questo è possibile e consentito e praticabile proprio dalla proprietà della moneta. L’alternativa è quella che abbiamo oggi, cioè un valore sempre maggiore a quei pochi che hanno moneta, mentre gli altri si affanneranno a cercare un lavoro sempre peggio retribuito. Questo è il punto cruciale sulla questione della sovranità monetaria. E tutte le discussioni sugli effetti finanziari e bancari sono semplicemente corollari a dimostrazione di un sistema fallimentare che non può funzionare.
Riassumendo: oltre che contraria alla nostra Costituzione («la sovranità appartiene al popolo»), la perdita della sovranità monetaria (con adozione di una moneta straniera) non funziona perché fa crescere perennemente il debito del sistema; ed è immorale perché scarica i guasti della finanza sul mercato del lavoro.
Prossimamente vedremo gli altri due punti fermi.
Foto euro da Shutterstock