Sei anni per una telefonata. Uno per sfruttamento di prostituzione giovanile. Interdizione alle cariche pubbliche in perpetuo. Totale: sette anni di galera e abrasione del suo nome, Silvio Berlusconi, dal libro della cittadinanza e onorata società civile. Una sentenza esagerata, lo pensano tutti, ma non politica se per politica si intende il ’92, le monetine su Craxi, l’affare Di Pietro e il tre volte “resistere” di F. S. Borrelli impugnando come coltello dalla parte del manico la Costituzione.
Nella sentenza cosiddetta sul cosiddetto caso Ruby c’è altro. Per prima cosa c’è l’antipolitica giunta alla fase di legittimazione grazie al vigore sostanzialista ostile per cultura – chiamiamola così – al fondamentale principio di diritto che nell’incertezza delle prove, pro reo.
Nella sostanza, nella vox mediatico-giudiziaria, B. è colpevole. Dunque puniti e indagati anche i testimoni a discarico perché se il testimone d’accusa è un eroe della società civile, chi difende B. nel processo Ruby non può non mentire.
In secondo luogo c’è – e ’l modo ancor m’offende – all’origine del processo prima ancora che nella sentenza, una idea di giustizia che astrae e isola il principio di legalità dal principio di legittimità. Non ci sono parti che si considerino offese eppure c’è una condanna pesantissima.
Tutto legale, la legge è legge, hanno solo applicato il codice. Non sentite anche voi in queste frasi di ovvia ovvietà risuonare la campana a morto della legge fatta per l’uomo e per la sua libertà? Non sentite che il mezzo si è impossessato dei fini? Non avvertite che giustizia è in mezzo a noi non per renderci tutti più liberi, ma più intercettati, origliati, spiati e dati in pasto ai giornali?