Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – In attesa che una linea politica comune di tutti i paesi dell’Unione Europea nei riguardi dell’emergenza migranti prenda forma, viviamo la stagione dei paradossi. Alla fine una linea comune verrà fuori per forza, perché l’alternativa è la scomposizione dell’Unione in blocchi, che segnerebbe la sua fine. E la linea comune consisterà principalmente nella difesa muscolare delle frontiere esterne dell’Unione, checché ne dicano Amnesty International, Ban Ki-moon e la Corte di giustizia europea. Che poi la cosa funzioni, questo è un altro paio di maniche.
Nel frattempo, l’unico relax per vittime e carnefici volontari e involontari del dramma umano che domina questo scorcio di secolo è lo spettacolo dei paradossi europei. La crisi del Brennero ne condensa un florilegio. A cominciare da due testacoda storici: per la prima volta in cento anni è colpa degli austriaci, e non degli italiani, se i tirolesi del sud restano separati da quelli del nord; per la prima volta in settant’anni la Südtiroler Volkspartei, partito dei sudtirolesi di lingua tedesca e ladina intrappolati in Italia dal trattato di Saint-Germain-en-Laye del 1919, dà ragione a Roma e dà torto a Vienna. Proseguendo coi voltafaccia spudorati del governo austriaco, che sette mesi fa accusava l’Ungheria di atti infami ai danni dei richiedenti asilo, mentre oggi allinea politiche in materia per niente diverse da quelle che il governo di Viktor Orban per primo ha inaugurato l’estate scorsa. Nel settembre 2015 il primo ministro austriaco socialdemocratico Werner Faymann aveva paragonato le politiche ungheresi alle deportazioni naziste: «Stipare i rifugiati nei treni e mandarli in luoghi completamente diversi da quelli che essi credono, ci ricorda i più bui capitoli della storia del nostro continente», aveva detto a proposito dei richiedenti asilo che Budapest aveva internato in centri di raccolta, dopo aver fatto credere loro di lasciarli passare in Austria. Già a febbraio Faymann aveva cambiato idea, e annunciava il ripristino dei controlli di frontiera al Brennero nel corso di un incontro coi rappresentanti del governo italiano che lasciava Matteo Renzi costernato. Annunciava pure che l’ospitalità austriaca non sarebbe mai più stata smisurata: «Entro un mese, l’Austria avrà raggiunto il numero massimo di 37.500 rifugiati che prevede di accogliere entro l’anno ed è pronta a chiudere le proprie frontiere a nuovi arrivi».
Poi c’è il paradosso ungherese. Tutti quelli che hanno biasimato Budapest oggi stanno facendo di peggio, in termini di normative europee. Le critiche erano cominciate ben prima dei treni del settembre 2015. Già all’inizio dell’estate aveva provocato disgusto in numerose capitali europee e alzate di sopracciglia a Bruxelles la notizia che l’Ungheria stava erigendo una barriera anti-immigranti al confine con la Serbia. Oggi possiamo censire una serie di stati che hanno ripristinato e irrigidito i controlli di frontiera all’interno stesso dell’area Schengen, e non verso l’esterno come ha correttamente fatto il governo di Viktor Orban. La Svezia controlla gli ingressi dalla Danimarca, la Danimarca quelli dalla Germania, la Germania quelli dall’Austria e viceversa, l’Austria quelli dalla Slovenia, sul cui confine ha costruito una recinzione lunga 3,7 chilometri. Ora si appresta a fare altrettanto con l’Italia. La Croazia dovrebbe entrare a far parte dello spazio Schengen a giorni, ma nel frattempo hanno eretto barriere di filo spinato lungo il loro confine con questo paese sia Slovenia che Ungheria. La costruenda barriera del Brennero è solo l’ultima di una serie di barriere fra stati dell’Unione che hanno visto la luce negli ultimi mesi.
Ciliegina sulla torta dei paradossi, la politica dei due pesi e delle due misure di Vienna nei confronti di Roma. Gli austriaci amano circonfondere di cifre inappellabili le loro ragioni. Spiegano che l’anno scorso hanno accolto 90 mila richiedenti asilo (conquistando il terzo posto Ue dopo Ungheria e Svezia nella classifica della percentuale di aspiranti profughi sul totale degli abitanti), pari all’1 per cento della loro popolazione, e che avendo stabilito di non superare la percentuale dell’1,5 per cento nei prossimi cinque anni adesso non ne possono prendere più di altri 37.500. Ma essendo già aumentato del 50 per cento il numero dei migranti entrati in Italia nei primi tre mesi del 2016 rispetto al 2015, loro si aspettano 300 mila arrivi totali in Italia quest’anno e un proporzionale aumento della pressione migratoria sul Brennero (che non è l’unico punto di passaggio fra i due paesi, ma è il principale). L’Austria però evita di fornire due cifre che sarebbero molto interessanti: quanti siano i migranti che hanno cercato di forzare il confine dall’Italia senza avere le carte in regola, e quanti siano i clandestini che hanno percorso la strada all’incontrario, cioè dall’Austria all’Italia. Perché ce ne sono, eccome. Hanno scritto i ministri Alfano e Gentiloni al commissario europeo per i migranti Avramopoulos: «Nella comunicazione del 14 marzo scorso, il ministro dell’Interno austriaco non offre alcun dato numerico circa il presunto incremento dei flussi migratori secondari dall’Italia. In realtà, dall’1 gennaio al 10 aprile 2016, tali movimenti sono stati registrati soprattutto dall’Austria verso l’Italia (2.722 cittadini stranieri rintracciati dalla Polizia di frontiera italiana al confine e provenienti dall’Austria a fronte di 179 nello stesso periodo del 2015)».
L’accordo Bruxelles-Ankara
L’Austria può solo rispondere che la barriera del Brennero è profilattica in vista del futuro. Non può dire quello che veramente pensa: cioè che l’ideale è non lasciar passare più nessuno in provenienza dall’Italia e chiudere un occhio sugli irregolari che dal territorio austriaco vogliono dirigersi a sud.
Che quest’estate l’ondata migratoria si sposterà dai Balcani, sigillati con barriere e accordi bilaterali fra una decina di paesi ex asburgici ed ex ottomani, all’Italia, raggiunta per mare dalla Libia e/o dall’Albania, è possibile ma non è certo. Dipende anche da quello che succederà in Grecia, dal destino dell’accordo Ue-Turchia sul rimpatrio dei migranti in terra turca, dal persistere o meno dell’impasse del piano di redistribuzione dei profughi fra tutti i paesi dell’Unione. Se tutte e tre queste variabili volgeranno al peggio, per l’Italia potrebbe non esserci scampo.
Il successo dell’accordo Bruxelles-Ankara – la Turchia che accetta i rimpatri dalla Grecia in cambio di soldi (3 miliardi di euro), trasferimenti di profughi in forma legale dalla Turchia all’Europa in proporzione al numero di quelli rientrati dalle isole greche – non dipende soltanto dalla volontà politica dei due attori. Altri protagonisti stanno agendo in modo da farlo saltare. Anzitutto i migranti, che avendo capito al volo la novità, dopo la prima ondata di deportazioni il 4 aprile scorso si sono fatti furbi e hanno in massa presentato richiesta di asilo alle autorità greche. Mentre prima non si facevano registrare per poter proseguire il loro cammino verso l’Europa centrale, adesso fanno domanda per essere accolti come profughi in Grecia, bloccando in tal modo l’espulsione verso la Turchia da cui provengono. Non vogliono in realtà restare in Grecia, bensì guadagnare tempo per proseguire il viaggio progettato quando le condizioni saranno più favorevoli. I migranti coi quali papa Francesco ha pranzato a Lesbo appartengono verosimilmente tutti a questa categoria. La tattica può funzionare, perché l’inefficiente macchina burocratica greca vantava già un arretrato di 4 mila domande d’asilo inevase prima dell’entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia. In un battibaleno il totale delle domande è salito a quota 10 mila, e la cifra sembra destinata a crescere ancora, a meno che ai greci non arrivi un aiuto decisivo da parte europea. Nonostante le casse pubbliche siano vuote per le note ragioni, il governo ha deciso di aumentare da 295 a 550 le unità di personale addette ai servizi per i richiedenti asilo: sempre troppo poche in relazione ai 53 mila immigrati che potrebbero fare domanda, stanchi di aspettare a Idomeni e altrove col rischio di essere rispediti in Turchia. L’Europa ha promesso di inviare in aiuto 2.300 elementi fra agenti di polizia, personale amministrativo, magistrati e interpreti, ma finora ne sono arrivati poco più di mezzo migliaio.
Il caos della Grecia
La Grecia, praticamente anche se non formalmente sospesa dagli accordi di Schengen, continua a mostrarsi inadempiente per quanto riguarda un serio piano di controllo delle sue frontiere. La Commissione l’ha appena bacchettata per non aver attuato tutte le misure che le erano state chieste. La Grecia non ha un sistema efficiente di rilevamento delle impronte digitali dei migranti da incrociare col database europeo, né di sorveglianza delle coste, e non ha saputo organizzare pattugliamenti congiunti con Frontex ai confini con la Macedonia. I centri di accoglienza presentano pessimi standard abitativi, i respingimenti sono troppo pochi e i permessi temporanei, che permettono ai migranti di viaggiare all’interno della Grecia e quindi organizzarsi per raggiungere altri paesi dell’Unione, troppo numerosi. Di questo passo, la sospensione di Atene dalla zona Schengen rischia di diventare semi-permanente.
La proposta italiana
L’altro rischio di fallimento che pende sull’intera operazione, è il possibile successo di ricorsi in giustizia inoltrati da migranti già deportati dalle isole greche in Turchia e da quelli che lo saranno nelle prossime settimane. Enti ufficiali come l’Alto commissariato per i profughi hanno espresso le loro perplessità sulla legittimità giuridica dell’accordo Ue-Turchia. Per poter deportare i migranti dalla Grecia o da altri paesi europei in Turchia gli stati dell’Unione devono classificare il paese euro-asiatico come destinazione sicura per i profughi. Tale provvedimento può essere contestato, perché la Turchia non ha sottoscritto tutti i protocolli della convenzione di Ginevra sui rifugiati, e le sue leggi statuiscono che solo i profughi europei hanno diritto alla protezione legale. Per i siriani, ad esempio, Ankara ha dovuto decretare provvedimenti d’eccezione. Alcune Ong europee hanno già fatto sapere che forniranno assistenza legale ai migranti che vorranno fare ricorso contro le deportazioni in Turchia presso la Corte di giustizia europea. La notizia diffusa da Amnesty International e non confermata secondo cui la Turchia starebbe respingendo profughi siriani verso il loro paese d’origine sembra fatta apposta per far naufragare l’accordo. Renzi ha proposto a Bruxelles un Migration compact che tiene conto di tutti i fattori per risolvere la crisi dei migranti. Idea valida, ma è probabile che l’Unione arriverà a una politica e a un piano comuni più per rimbalzo dallo scontro fra le singole politiche nazionali, che per una consapevole convergenza sulla via maestra della custodia condivisa della frontiera esterna dell’Unione Europea.
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