Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Milano. È un bar in via Farini, all’Isola, vecchia Milano incalzata dai nuovi grattacieli. Ci entro per caso, e subito qualcosa mi pare strano. Ordino un caffè e mi siedo. Che posto. Pare un locale di cinquant’anni fa.
Ai tavoli di formica siedono sei o sette pensionati. Da come discorrono e ridono fra loro li diresti degli habitué, e il bar un loro circolo privato. Ma, ecco cosa mi aveva stupito, parlano in milanese. Mi pare una vita, che non sentivo più una conversazione così.
Parlano come il salumaio, l’idraulico, il portinaio di quando ero bambina. Con quell’accento grosso e largo che si piega nelle “u” e nelle “o” strette, e poi si riallarga nella cadenza benigna, padana. Quell’accento in cui anche le parole brusche – «Ehi fieou, va’ a ciapà i ratt» – sembrano una carezza.
Via Farini oggi è un susseguirsi di kebab e centri per massaggi cinesi. Sulla filovia 92, che attraversa la strada, non incontri un italiano. E questi del bar all’angolo, che paiono rimasti immobili nel tempo. Ex impiegati e operai, dignitosamente vestiti, i capelli grigi, a mezzogiorno si accendono davanti a un bianchino. Stamattina sono furibondi con la Fornero. Rivogliono i loro soldi, protestano a gran voce – ma ridono, all’idea di rivederli davvero.
Uno di loro, silenzioso, strofina con una moneta un gratta e vinci – adagio, per sapere il più tardi possibile che anche stavolta non ha vinto niente. Un altro fa chiasso e un compagno lo richiama: «Fa’ no el ganassa». Il televisore, vecchiotto anche lui, è spento. Dietro al bancone c’è un’immagine di Padre Pio. I padroni, marito e moglie, pure anziani, ascoltano la banda dei pensionati sorridendo.
Più in là dei tavoli sono già apparecchiati per il mezzogiorno, con le tovaglie a quadretti. Su un banco i pacchi del pane, gonfi di bastoni e di michette. Questo posto, mi dico osservando le piastrelle lise del pavimento, è rimasto uguale dagli anni Sessanta. Fuori, Milano è un’altra. Ma qui dentro, si sta come in una bolla immobile. Un nuovo avventore entra, e ha l’accento pugliese; ma è chiaro che è uno del club ormai, anni luce da quando lo chiamavano “terrone”. «Mi vu’ a ca’, che la mia miée la me speta», annuncia un altro, alzandosi in piedi. E un amico, ironico: «Ma ti te se no che se dis pu inscì, “moglie”? Incoeu se dis “compagna”». «Ansi, “compagna”, o “compagno”, l’è istess, adéss», ridacchia un altro.
Allora lo sanno, i vecchi della bolla di via Farini, che il mondo fuori è cambiato. Se ne stanno stretti nel loro bar dove raramente entra un estraneo, tanto dimesso è l’aspetto.
Se ne stanno lì, i vecchi ragazzi dell’Isola, allegri apparentemente, ma come assediati. Fuori di qui, non conoscono più nessuno. Il bianchino del mezzogiorno è il rito che li ristora e li conforta – le stesse facce di sempre, sotto ai capelli ingrigiti. Poi, un mattino accade che uno manca. Due giorni dopo la brigata è di nuovo insieme, ridanciana, chiassosa. Quasi come i bambini, quando fanno rumore per non aver paura.
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