Oggi su Repubblica è apparsa una lettera di Massimo Mauro, presidente di Aisla, l’associazione italiana che si occupa dei malati di Sla (lo vedete nella foto con la nostra Susanna Campus). Mauro, ex calciatore e parlamentare dell’Ulivo, oggi commentatore televisivo, conduce da anni una meritevole battaglia affinché i seimila malati italiani affetti da Sla e le loro famiglie non siano dimenticati dallo Stato e dalla società. Ecco il testo della sua missiva.
L’Associazione che presiedo ha di recente avviato una riflessione sulle scelte di fine vita. Le conclusioni sono contenute in un documento condiviso. C’è un grande equivoco che va subito chiarito. La rinuncia ai trattamenti che la persona considera ad un certo punto sproporzionati non si configura come eutanasia. Va detto con chiarezza che a provocare morte è la malattia nel primo caso mentre è la somministrazione di una sostanza letale nel secondo. Come sempre accade nella storia delle lotte contro le discriminazioni, il vero grande ostacolo sono l’ignoranza, i pregiudizi e i falsi concetti. La vita è un bene prezioso per noi “sani” ma lo diventa ancor di più per le persone che si trovano ad affrontare prove terribili come la Sla. Le persone con Sla hanno un’incredibile voglia di vivere e tentano con forza di opporsi alla potenza devastante di questo morbo. Tutti i malati che ho conosciuto non chiedono di morire ma chiedono con forza di scegliere come vivere.
NB. Il documento condiviso cui fa riferimento Mauro lo trovate a questo link. Tra le altre cose, si legge: «Aisla si è finora sempre espressa senza equivoci di sorta contro l’eutanasia e continuerà a farlo, nella convinzione che in un Paese che voglia ritenersi civile il diritto alla vita di ciascun cittadino debba rimanere inalienabile in qualsiasi condizione fisica egli venga a trovarsi, insieme con la possibilità di essere sostenuto e preso in carico con il suo nucleo familiare».