Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Milano, aprile. Una traversa di via Paolo Sarpi, a Chinatown, un sabato mattina presto. La piccola bottega è lunga e stretta, tappezzata di scaffali stipati di merce, imbiancata alla meglio: senza alcuna concessione alla eleganza ostentata dei negozi del centro di Milano. Qui, nel cuore del quartiere cinese, riparano i cellulari: in due ore, per poche decine di euro, aggiustano perfettamente telefoni da centinaia di euro. Sopra al negozio, un piccolo laboratorio dove operai cinesi aprono delicatamente gli smartphone, ne toccano sapientemente i delicati circuiti, richiudono. Fuori, a certe ore c’è la coda.
Fra gli scaffali giocano un bambino e una bambina sugli otto anni, forse fratelli. Poi escono e sugli skateboard si inseguono sullo stretto marciapiede. Parlano, tra loro, un italiano perfetto. Si affaccia il padre, in camice da lavoro, e in cinese dà un ordine brusco. I due bambini alzano immediatamente lo skateboard da terra e, ubbidienti, tornano in negozio.
La piccola scena mi meraviglia. Per le parole brevi del padre, che non ha bisogno di alzare la voce. Per la velocità con cui i due ragazzini obbediscono, senza obiettare. Roba d’altri tempi. Ma anche il brusio operoso della bottega mi ricorda certi piccoli laboratori artigiani della Milano di quando ero bambina, dove si lavorava senza alzare la testa fino a mezzogiorno, e poi si apriva la “schiscetta” con la pasta portata da casa.
Fuori dal negozio, in attesa che il suo cellulare sia pronto, un ragazzino cinese mi spiega che il padrone di quel negozio ha iniziato a lavorare a sedici anni, e adesso è quasi ricco. Lo dice con fierezza per il suo connazionale: come facevano i milanesi di un tempo, quelli che andavano a bottega da ragazzini e a quarant’anni bonariamente si vantavano, orgogliosi del benessere raggiunto, del lavoro creato, della famiglia costruita. Intanto, dal parrucchiere accanto, il negozio è affollatissimo, già a quest’ora. Qui a Chinatown lavorano come fabbri.
E ti sembra davvero di essere ripiombata in un angolo della Milano degli anni Sessanta, quella china, in camice o in tuta blu, sui banchi delle fabbriche e delle botteghe, operosa fino allo sfinimento. Quella bottega stretta, disordinata, come di chi non ha tempo per preoccuparsi di “immagine”; e quei due ragazzini che al sabato mattina giocano, ma smettono immediatamente a una parola del padre. Pare la Milano in cui i panettieri si chiamavano prestinée, e non c’erano gli stilisti, ma solo piccole laboriose sarte, che si inginocchiavano a puntare gli spilli dell’orlo delle gonne delle clienti. «Come si chiama il tuo cane?», mi chiede gentile la bambina dello skateboard, la frangia nerissima sui begli occhi a mandorla. E poi: «Lo posso accarezzare?».
Educata come una bambina di altri tempi. Me ne vado con la sensazione che questo angolo straniero di città coltivi in sé, misteriosamente, qualcosa di profondamente milanese. Di una Milano che, attorno, non c’è più.
Foto Ansa